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Ventiquattro ore riempiono una giornata e conducono in un viaggio tra quanti, notte e giorno, rendono possibile la nostra vita. Riccardo Staglianò usa il pretesto dello scorrere delle ore per raccontare chi sono, cosa fanno, quanto faticano i circa cinque milioni di immigrati che vivono in Italia. Vivono, producono, lavorano e scompaiono in un cono d'ombra che il discorso pubblico, e la politica, non vogliono farci vedere.
Non è un bel periodo per essere immigrati in Italia, dice Staglianò. Gli immigrati sono i primi a pagare il prezzo della crisi economica, guadagnano meno, sono tormentati da una burocrazia e da una normativa che, con "cattivismo" insensato, mette balzelli, non rispetta i termini di legge, introduce punti e test senza investire risorse e politiche pubbliche. Non è facile esserlo soprattutto fuori dagli orari di lavoro: quando gli immigrati smettono di "essere utili" per tornare a essere persone che vogliono pregare, stare insieme, cantare, passeggiare. Vivere le città e assolvere a quei bisogni primari che caratterizzano gli esseri umani: comunicare, socializzare, innamorarsi, provare nostalgia. Nel furore di questi tempi fioccano ordinanze, si innescano dibattiti feroci, si alzano muri che impediscono di vedere le cose come stanno: costruire convivenza e coesione tra diversi è un compito difficile e faticoso, che la politica ha il dovere e la responsabilità di governare e di non usare per scatenare istinti furibondi. Ci si scontra non tra destra e sinistra, ma "tra negazionisti e occhioapertisti", tra chi semplicemente nega e rifiuta l'idea di una società plurale e multiculturale e quelli che ritengono vitale, ineludibile e necessaria per il futuro dell'Italia l'esistenza di nuovi cittadini. Il declino demografico, la crisi economica, l'invecchiamento della popolazione rendono necessario e positivo l'apporto di popolazioni giovani, attive, con un tasso di natalità superiore a quello autoctono.
Staglianò contribuisce a superare il furore miope del dibattito pubblico sull'immigrazione scegliendo di non parlare di valori, di etica, bensì di portafoglio. Il più vile e concretissimo stimolo che dovrebbe spingere anche i più riottosi a rendersi conto che senza gli immigrati, semplicemente, non ce la possiamo fare.
All'una di notte parte il viaggio con la categoria più nota, e umiliata: le badanti, "agenti di un welfare privato" spesso costrette a una sorta di vita da "arresti domiciliari": circa un terzo di loro assiste anziani e malati ventiquattro ore al giorno, sei o sette giorni su sette. Donne che consentono ad altre donne noi di lavorare, amare, vivere, uscire di casa, coltivare interessi e relazioni.
Si prosegue con i pescatori di Mazara del Vallo, che escono in piena notte e buttano le reti in un Mediterraneo che sempre più spesso diventa la tomba di loro connazionali. I camionisti, soprattutto dell'Est, affollano le autostrade di notte a bordo di camion che non sono loro: sfruttati, pagati poco, costretti a orari che mettono in pericolo la loro e la nostra vita.
Le bufale della Campania e le vacche emiliane vengono munte dai sikh, unici immigrati inseguiti dallo stigma positivo perché si pensa che, in quanto indiani, abbiano più sensibilità con i bovini. E non si considera che sono i vegetariani indù, e non i sikh, a ritenere sacra la vacca. Poco importa: Punjab-Italia spesso è lo scenario che si intravede nella pianura emiliana o in quella campana. Senza il loro lavoro, spesso clandestino, non gratteremmo nulla sulla pasta e non mangeremmo la pizza margherita.
Quando entriamo in ufficio o a scuola troviamo i cestini svuotati, le scrivanie riordinate: sono entrati in servizio all'alba gli addetti delle pulizie che, in virtù di tagli e appalti al massimo ribasso, adesso hanno 75 minuti in meno di un tempo per fare lo stesso lavoro.
Poi ci sono le colf che rigovernano le nostre case, le baby sitter che vanno a prendere i bambini a scuola. I raccoglitori di mele in Trentino, di carciofi, pomodori, arance nel Sud: Rosarno è l'esempio più atroce dell'intreccio tra malavita organizzata, sfruttamento e nuovo schiavismo.
Si entra nelle cave di pietra e si trovano cinesi, nelle concerie del Nord-Est ci sono i nigerini e marocchini, nei cantieri navali si parlano tutte le lingue del mondo, nei retrobottega dei ristoranti ci sono egiziani, bangladeshi, pakistani. Se si va a messa si trovano ormai preti e suore di ogni colore: anche la crisi delle vocazioni attinge a piene mani dal resto del mondo.
Le lancette sull'orologio avanzano e a ogni ora si apre uno squarcio sulle condizioni, spesso feroci e faticose, di milioni di persone senza le quali nessuno di noi sarebbe in grado, anche indirettamente, di sopravvivere. Allo scoccare della mezzanotte, le strade si riempiono delle ragazze giovanissime con cui milioni di clienti all'anno passano qualche minuto di sesso frettoloso senza chiedersi se dietro quelle storie c'è libertà o costrizione violenta e atroce.
Sfruttamento, condizioni di lavoro al limite del sopportabile, scarsissima possibilità di prendere l'ascensore sociale che consente di migliorare le proprie condizioni di vita, una legge che rende ancora più difficile farcela e stabilizzarsi. E un discorso pubblico che parla di loro come fossero invisibili, assenti, non integrabili. Nel ringraziare Staglianò, e i cinque milioni di immigrati in Italia, è fondamentale ricordarci che parlare di integrazione non è parlare degli altri. È parlare di noi: della nostra capacità di costruire coesione e inclusione rispettando quei principi fondamentali che ci dovrebbero connotare come comunità civile: uguaglianza, giustizia, solidarietà. Senza di loro, e senza questi principi, siamo fuori dalla storia.
Ilda Curti
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