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Anno edizione: 2009
Anno edizione: 2013
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Come se fosse una specie di contrappasso inevitabile, ogni volta che si parla dei libri di Vitaliano Trevisan affiorano subito i nomi di due autori, quello di Bernhard e quello di Beckett, "utilizzati", in maniera più o meno esplicita, dallo scrittore vicentino. Un pontifex maximus della stroncatura quale Franco Cordelli, prendendo spunto da questa ricorrenza quasi obbligatoria, aveva demolito il suo romanzo Il ponte (Einaudi, 2007) dalle colonne del "Corriere della Sera" rimproverando a Trevisan l'incapacità di abbandonare la gabbia di un epigonismo sterile e ripetitivo: "In quanto a Trevisan, il suo calco da Bernhard è ben noto e francamente stucchevole".
In realtà, in questi cinque racconti di Grotteschi e arabeschi, l'autore accantona per il momento ogni tentazione mimetica, scrivendo una piccola silloge che "scarta" sensibilmente, sia per ambientazione che per stile, dalle sue opere precedenti. Una lingua nuova, o meglio un ritmo nuovo, è quello che si afferma infatti in queste pagine, lontano da quelle peculiarità (il ductus percussivo della prosa dalla cadenza ipnotica, la sintassi-labirinto che reiterava senza soluzione di continuità immagini e proposizioni) che avevano in precedenza caratterizzato il suo stile da "nipotino di Bernhard". Anche gli spazi in cui si ambientano questi cinque racconti virati al nero è comunque meno claustrofobico e "angusto" del solito. Non più esclusivamente la provincia veneta dello "schifo cattolico democratico artigiano industriale", buco di provincia compre(s)so dentro la fatidica misura dei "quindicimila passi" (come voleva il titolo di un altro romanzo di Trevisan), ma anche altri luoghi, in primis la Roma dei salotti mondani e chic. Ambienti conosciuti de visu dal Trevisan attore, sceneggiatore, autore teatrale, con un impatto che si direbbe traumatizzante, sia a giudicare dalle interviste rilasciate che dal veleno distillato e profuso in molte pagine di questi racconti.
L'omaggio a Edgard Allan Poe, oltre che in alcuni titoli e nel mood generale della raccolta, sembra perlopiù circoscritto a una specie di progressivo slittamento, in alcuni racconti, verso atmosfere sempre più allucinatorie e surreali, quasi da ghost story. Due fra tutti svettano e brillano di luce propria, anche se "è una luce leggera, bianca, fredda. Una luce del Nord che non dà requie. E quando gli occhi si chiudono, è solo per guardarsi dentro". Il primo, Il barilozzo di Amontillado, susciterà certamente polemiche che tracimeranno dall'orticello letterario. È infatti un saggio-racconto dove invettiva, autobiografia e critica sociale convergono nell'attacco esplicito e ustorio rivolto al regista di Gomorra, Matteo Garrone, qui ineffabilmente chiamato "X", reo di avere pronunciato nei contenuti extra del dvd Primo amore un giudizio impietoso nei confronti di Trevisan stesso, che di quel film è stato attore e sceneggiatore. Il finale cruento (l'assassinio di Garrone per mano di un suo giovane protetto caduto in disgrazia e, magra consolazione, il premio Oscar postumo per Gomorra) è in linea con il resto del racconto, percorso da un livore ferocissimo. L'attacco a Garrone si amplifica fino a diventare una furibonda invettiva verso il sistema cinematografico tout court, gestito da "registi/autori ossessionati dalla Realtà, [che] naturalmente, provenendo tutti dallo stesso ambiente piccolo borghese, ne hanno un'idea assai vaga". Un sistema sostanzialmente mafioso, un parcogiochi riservato ai soliti noti che non può accettare l'intromissione "di un figlio di puttana sottoproletario geneticamente anarchico" quale l'io narrante si considera.
L'altro racconto, tra i più belli, veritieri e anticonsolatori che siano stati scritti ultimamente sulla vecchiaia, è Madre con cuscino, nel quale lo scrittore parla, con toni privi di ogni afflato retorico, della decadenza di un'italica casa Usher e del complicato rapporto con una madre (un corpo, meglio) malata di Alzeimher, con finale sconvolgente, tanto "immorale" quanto sorprendente.
Ma in questi racconti niente è davvero rimasto del Trevisan che conoscevamo? In realtà, alcune peculiarità sono senz'altro restate: la presenza ossessiva di un monologo interiore dai riffs ossessivi e dai tratti patologici, vomitato da un io narrante che si sfinisce nel fare aggallare odi e rancori, nel collezionare rovine materiali e morali, nel ruminare ipotesi, nel frantumare ricordi e persone. In altre parole, riaffiora anche in queste pagine la vocazione insopprimibile, primordiale del Nestbeschmutzer, categoria antropologica nella quale volentieri lo scrittore ama identificarsi e riconoscersi (cfr. Il ponte). In tedesco, il Nestbeschmutzer è colui che letteralmente insozza il proprio nido, colui che, spregiando tradizioni e bon ton, sputa nel piatto dove mangia. In questi Grotteschi e arabeschi è come se il Nestbeschmutzer, quasi per necessità vitale, avesse ora però bisogno di scenari più ampi e vasti per manifestare il suo odio inconciliabile, la sua irriducibile aggressività, il suo nichilismo a oltranza. Del resto, come scrive in un racconto, "era in quella rovina che dovevo ficcare il naso, se volevo mantenere in vita la speranza di dare un senso alla mia vita, o meglio, a ciò che ne restava".
Linnio Accorroni
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