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Anno edizione: 2018
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Camporesi: parlarne bene. In un ipotetico dizionario dei luoghi comuni dell’attuale gastromania (già: a quando quello vero?) alla lettera “C” spiccherebbe – fra Calandre (Le) e Cannavacciuolo A. – Piero Camporesi. E godrebbe di questa lapidaria definizione. Di lui si sa tutto e niente, lo si cita a dismisura, raramente lo si legge con sincera attenzione o anche con un minimo di sana curiosità. Così il parlarne al meglio sembra dispensare dallo studio serio e continuato delle sue opere. Le quali – a dispetto del bel numero di Riga a lui interamente dedicato (a cura di Marco Belpoliti, 2009) che ha provato a rinverdirle – languono impietosamente.
Plauso perciò alla casa editrice Il Saggiatore che sta ripubblicando i principali libri di Camporesi – l’ultimo sinora, nel 2018, La casa dell’eternità –, proponendoci adesso questo Il gusto della ricerca (velo pietoso sul titolo), una variegata raccolta di saggi su Camporesi detti (e poi scritti) per ricordare, nel 2017, i vent’anni della sua scomparsa. La cura è di Gian Mario Anselmi, Aurelia Camporesi, Elide Casali e Alberto di Franco.
I convegni sono occasioni imprevedibili, e così i loro Atti. Quando sono celebrativi, poi, si dividono radicalmente in due categorie: quelli vuotamente rituali, se non da parenti-serpenti, e quelli veramente sentiti, dove l’affetto sgorga più del concetto. Questo libro testimonia di una situazione diversa, in cui gli autori coinvolti – tantissimi – cercano di capire il personaggio più che l’uomo, il critico più che lo studioso, l’ostinato ricercatore più che il professore universitario. E lo fanno con passione e ragione, cura e discernimento, nel tentativo di andare oltre l’idea detta e ridetta che classifica Camporesi come un irregolare per professione, un storico della letteratura che ribalta i tappeti per additare il brulichio di vermi che sottostà ai loro splendidi intrecci. Niente agiografie, dunque – impossibili del resto per uno che preferiva di gran lunga il diavolo all’acquasanta. Semmai il tentativo di andar oltre la seconda impressione, e di iniziare a incrinare lo stereotipo carnale e carnascialesco, tutto stomaco in fiamme e secrezioni corporee. A una prima ondata di reazioni – sensata e sensibile – che ha voluto Camporesi eroe salvatore dei vagabondi e dei miserabili, filologo ribelle alla ricerca del basso e del comico sans le vouloir, sembra insomma stia seguendo una seconda ondata meno euforica ma più meditabonda che, senza gettare via il bimbo con l’acqua fremente di orridi miasmi, accetta per esempio la sfida del misurarsi con l’enorme mole di scritti di Camporesi (troppo spesso ricattatoria), ricostruendone i percorsi e gli obiettivi, le trame e i vicoli ciechi, le linee di continuità e le rotture interne, non senza ridisegnarne i contesti storici e culturali, filosofici e ideologici: appaiono così molto meglio gli amici e i nemici, i compagni di strada e gli avversari teorici.
Il libro in questione è un buon esempio di questa seconda ondata in epifania montante. Vengono fuori i principali temi discussi dallo studioso (il folklore, la fisiognomica allargata, i gusti e i disgusti, il protofemminismo, le contaminazioni, il sapere popolare, la corporeità, la medicina e le ricette farmacologiche, l’archeologia della modernità, il futuro remoto, la falsa dietetica dimagrante), i suoi autori di riferimento (Giulio Cesare Croce, Olindo Guerrini, Pellegrino Artusi), i suoi editori (Einaudi, Mondadori, Garzanti, Il Saggiatore). Ma soprattutto emergono alcune ricerche ulteriori che usano l’opera di Camporesi come spunto e stimolo per nuovi studi. Colpisce per esempio all’interno del volume un saggio sul Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, a prima vista fra gli autori più lontani dalla sensibilità e dal terreno di studi di Camporesi. Tanto poveraccio e sapientone Bertoldo, quanto abissalmente aristocratico il Principe di Salina. Eppure, a partire dall’idea di evanescenza dei rituali gastronomici, il crescendo dei momenti conviviali nel romanzo siciliano trova una nuova convincente interpretazione per così dire post-camporesiana.
Immaginiamo insomma sia venuto il momento di ribaltare il tappeto se e solo se siamo in grado, poi, di rimetterlo in ordine. In modo, molto semplicemente, da osservarne entrambi i lati che, come il foglio di carta di Saussure, non si danno mai l’uno senza l’altro. Se i vermi gozzovigliano sotto il tappeto, è perché, sopra, ci sta la sua intelaiatura, la sua trama, e cioè quella che, con buona pace degli ontalgici in servizio permanente effettivo, non possiamo che chiamare la sua articolazione testuale. Camporesi (lo dichiarava nelle interviste) non amava più di tanto gli strutturalisti. Ma se ha potuto e voluto trascenderne le metodologie, è perché ne aveva preventivamente acquisito gli esiti. Senza Levi-Strauss e Detienne, senza buono da pensare e giardini di Adone, niente pane avvelenato o brodo indiano. Analogamente, senza Bloch e Braudel, niente vagabondi e, soprattutto, niente stomaci vuoti appesantiti dalla fame. Se Camporesi può permettersi un certo snobismo nei confronti della metodologia storica o filologica, confessando spesso, come si ricorda in un passo importante del volume, di accontentarsi del criterio dell’analogia (prescientifico e assai problematico), è perché c’è stato chi – prima, accanto e dopo di lui – ha lavorato per riordinare la selva delle somiglianze in sistemi conchiusi, per ripensare le vaghe differenze come opposizioni pertinenti, per ridefinire le nebulose più o meno ‘basse’ in termini di configurazioni articolate.
Come dire che laddove Camporesi fornisce – e in dosi massicce – la sostanza, dev’esserci qualcuno che la mette in forma, che la espliciti ridicendola sotto altre sembianze, in modo da renderla non solo più esplicita, aperta all’interpretazione, ma soprattutto comparabile, traducibile in altro. Si pensi alla questione della moda mediatica del cibo evocata prima. A fronte dell’arida erudizione di molti attuali scrittori di cibo, che sanno tutto e non si chiedono mai il perché, o, peggio, rispetto alle spigolature occasionali di molta parola mediatica su cucina e gastronomia, l’opera di Camporesi si erge come una formidabile di barriera di contenimento. Si tratta adesso di schierarsi dalla sua parte, dribblare la gastromania, liberarsi di tante scorie inutili, smettendola però, al tempo stesso, di rimestare la solita minestra mal riscaldata che vuole il cibo come fenomeno oscuro e la cucina come tema trasgressivo.
Rilassiamoci, non è più così, per fortuna. Possiamo parlarne serenamente, senza più sette segrete o inquisizioni censorie. E buon appetito.
Gianfranco Marrone
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