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Gregotti, Vittorio, Identit… e crisi dell'architettura europea, Einaudi , 1999
AA.VV., Arcipelago Europa, n. mon di "Rassegna", n. 76, Einaudi , 1998
recensioni di Bianchetti, C. L'Indice del 2000, n. 02
L'architettura contemporanea si trova in una fase contrastata, e molto aperto è l'arco dei giudizi che la riguardano: tra entusiasmi per il confronto con le possibilità generate da nuove condizioni e timori per l'invasività di modelli omologanti, si situa un insieme ampio e diversificato di opinioni circa il ruolo che essa ha svolto in questo scorcio di secolo e che può ancora svolgere. L'opinione che da tempo esprime Vittorio Gregotti è assai preoccupata, ed egli ha modo di ribadirla nel suo ultimo libro Identità e crisi dell'architettura europea, la cui uscita ha preceduto di poco la pubblicazione del n. 76 di "Rassegna", la bella rivista della quale Gregotti è stato direttore dall'anno della sua fondazione e che con questo fascicolo ha sospeso le pubblicazioni. Alcuni dei numeri di "Rassegna" hanno aiutato a costruire la riflessione di questi anni con autorevolezza e capacità di riproposizione inusuali. La decisione di sospendere le pubblicazioni rende ancora più angusto il panorama della pubblicistica di settore, condizione sulla quale meriterebbe aprire un discorso a sé. Quest'ultimo numero è dedicato all'Arcipelago Europa (la locuzione è di Massimo Cacciari) e raccoglie scritti di Oswald Mathias Ungers, Joseph Rykwert, Harmut Frank, Jean-Luis Cohen, Arata Isozaki e Diane Ghirardo, oltre che dello stesso Vittorio Gregotti.
Rivista e libro rimandano reciprocamente l'uno all'altra in un fitto intreccio che sfrutta le possibilità illustrative della seconda per commentare il ragionamento svolto nel primo, riportato peraltro in ampie sintesi come editoriale. Il nodo affrontato è la riconoscibilità di una cultura architettonica europea, le sue costanti nel lungo periodo.
I primi cinque capitoli del libro (su 12 complessivi) e alcuni tra i più interessanti contributi di "Rassegna" (quelli di Rykwert e Cohen, ad esempio) si interrogano su condizioni comuni, differenze e intenzioni, su una "impalpabile matrice genetica" dell'architettura europea a partire dalla convinzione che essa non possa trovarsi in alcuna continuità - né di linguaggio, né di stile, né di luogo -, ma che piuttosto risieda in uno speciale crogiolo di ibridazioni, in un intreccio di differenze e nella capacità di assimilare ciò che è estraneo e riconducibile alle proprie interne specificità.
Altri contributi (Frank e Isozaki) affrontano il tema dal punto di vista della costruzione di una tradizione nazionale (inventata, costruita più che ereditata), al di fuori di quelle storie che già Musil chiamava "di fantasia", elaborate nel particolare gusto europeo che si entusiasma per i romanzi storici e per i drammi in costume. Una volta che ci si è sbarazzati di storie di fantasia e di nozioni troppo levigate e univoche di tradizione e identità, il problema emerge nel suo spessore.
Ma questo problema - per quanto possa essere posto in termini avvincenti ed elaborati, come accade in questi testi e nel loro spaziare tra geografia storica, rappresentazioni etnografiche e mitologie - è tale da un'angolazione oggi minoritaria e contrastata, come hanno anche mostrato le prime recensioni al volume. Nella maggioranza dei casi tradizione, identità, cultura sono nozioni trascurate, nella convinzione che le grandi narrazioni alle quali hanno dato corpo abbiano lasciato definitivamente posto a eventi, persone e formule fugaci, incapaci di armonizzare gli uni con gli altri. Anche nel campo dell'architettura è opinione di molti che ci si debba accontentare di storie divergenti, narrate in idiomi a volte non traducibili; che ci si trovi, anche qui, in "un insieme di fili e pezze" dentro al quale la giustapposizione diviene l'esperienza dominante: una volta che si è visto e sentito tutto, l'ironia e lo scetticismo diverrebbero atteggiamenti più plausibili dell'impegno e della pietas. È questo il modo in cui dovremmo abituarci a considerare l'architettura? Chi lo sostiene trova le posizioni di Gregotti inaccettabili. E nel contempo il giudizio che Gregotti formula nei confronti di questi orientamenti è particolarmente duro (si veda in particolare la seconda parte del libro), fondato sul rifiuto di ridurre l'architettura a funzione comunicativa, a testo, a pura estetizzazione della realtà: strade cieche che porterebbero ad atteggiamenti di vano ribellismo teso solo a stupire, all'esaltazione per gli strumenti informatici o alla riscoperta dell'advocacy planning degli anni sessanta, ritualmente riproposto in esperienze di partecipazione alle quali si chiederebbe di risolvere problemi che non si sanno risolvere.
L'impianto dal quale Gregotti muove queste critiche è costruito su una concezione alta del mestiere: è ancora possibile parlare di "virtù del fare", di una pratica artistica che non può accontentarsi di essere organica al presente, ma che è ancora, orgogliosamente, critica: sa modificare la realtà ed è in grado di anticiparla, sa fare delle trasformazioni attuali (compreso il predominio dei rapporti di mercato) materiali per il progetto, e non si accontenta di rinominarle, di essere - nei termini utilizzati da Franco Purini (cfr. "L'Indice", 1999, n. 6) - "superflua". C'è in Gregotti, da sempre, la frequentazione di nozioni che molti temono ormai di usare (o sostengono non abbia più senso usare) come quelle di disciplina, di fondamenti, di tradizione, nozioni che agganciano saldamente il fare attuale alla tradizione moderna, che fanno di quest'ultima una risposta ancora possibile al postmoderno. Il confronto con il presente (compreso quello della dispersione e dell'atopia) rimane ostinatamente ricerca della verità, senza illusioni e senza certezze. Le motivazioni che lo spingono a riflettere in termini generali non sono generiche, ma nascono dal bisogno di strappare un senso al gioco che ci circonda.
È difficile dire quanto l'ottimismo della volontà di Gregotti delinei un'uscita dagli attuali problemi dell'architettura e della città. Egli ritiene ancora possibile che la tradizione europea sopravviva in un mondo globalizzato, anche se le prove che è necessario affrontare sono titaniche: poiché è necessario capire come evitare che l'esperienza si trasformi solo in vissuto immediato, come riconquistare la lentezza, come ricostruire nessi tra universo strumentale e identità sociale e culturale, come intensificare il contenuto etico della modernità. Non ci si deve limitare a constatare la complessità, ma occorre lavorarvi dentro, "senza accontentarsi di lanciare continui moniti volti a sottolineare che tutto è terribilmente complicato e si sottrae a qualsiasi ordine".
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