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Nell’empatica introduzione al volume, il curatore Silvio Raffo definisce Emily Dickinson «la più pura vestale della lirica metafisica d’Occidente», e insistendo sull’«esercizio ascetico», sull’«attitudine alla contemplazione, all’interiorità dello sguardo» della poetessa di Amherst, propone una scelta di versi focalizzati sull’illuminazione estatica, sul superamento del dato empirico nella visione di una verità trascendente. C’era un’estrema umiltà, in Emily, che a trent’anni si recluse volontariamente nella propria stanza, limitando i propri rapporti sociali alla famiglia e a una fitta corrispondenza epistolare con pochi amici: l’umiltà di chi si sa creatura mortale, effimera, transitoria nella sua fisicità. La stessa modestia che la convinse a tenere chiuse nel cassetto 1775 poesie, pubblicate solo dopo la sua morte dalla sorella Lavinia: una discrezione consapevole tuttavia della propria irriducibile unicità, dignità e forza: «Ostacolarmi non può la montagna – / non il mare – / Chi è il Baltico? – / Chi Cordillera?». Alla ricchissima sensibilità interiore corrispose sempre in lei una «un’attenzione dello sguardo» rivolto non tanto alle persone e alle loro trascurabili vicende umane, quanto al paesaggio naturale, all’avvicendarsi delle stagioni, ai fiori e ai piccoli animali messaggeri di bellezza e di gratuità felicità: «Ho un uccellino in Primavera / che per me sola canta». Degli esseri umani sembrava interessarle soprattutto il momento del trapasso, la pace raggiunta nell’ immobilità eterna della morte, il transumanarsi in una spiritualità libera da ancoraggi terrestri: così dedicò splendidi versi al sonno «lieve e profondo» di una piccola compagna di scuola, e alla «massaia indolente» che giaceva immobile tra le margherite. Addirittura descrisse sé stessa nel dopo, in una premonizione del misterioso passaggio all’Infinità, certa che «C’è un altro cielo, / sempre limpido e bello, / e c’è un altro rilucere di sole, / anche se è fitta, lì, l’oscurità».
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