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recensione di Grilli, G., L'Indice 1993, n. 5
(recensione pubblicata per l'edizione del 1992)
"Non c'è nulla in tutto il nostro corpo che non sia stato un'altra cosa e non abbia una storia. Per esempio, - disse - , sua signoria guardi questa casacca: ebbene, prima era un paio di calzoni, nipote di una cappa e bisnipote di un soprabito, che questo era in origine, e ora aspetta di essere trasformata in stuole o altre cose del genere. Le pezze da piedi sono state prima dei fazzoletti, che un tempo erano asciugamani e prima ancora camicie, figlie di lenzuola, e alla fine le sfruttiamo come carta e sulla carta scriviamo e dopo la trasformiamo in polvere per risuscitare le scarpe..." Il lettore non troppo avvezzo a testi iberici potrebbe forse pensare che il brano citato appartenga a uno scritto in qualche misura destinato a riflettere il primo affacciarsi della trasformazione in merce dei beni d'uso. Siamo invece in un romanzo, il "Busc¢n* di Quevedo, perfettamente inseribile in un genere dai contorni piuttosto definiti - la narrazione picaresca - in un'epoca e un'ideologia - quelle del barocco - , ma soprattutto da leggere dentro una modalità - l'edonismo linguistico - che costituisce la cifra fondamentale e ineludibile per intendere il libro. E, invero, dal saggio di Spitzer ogni esegesi o riproposta del romanzo di Quevedo si è organizzata attorno a un'espansione o precisazione proprio del congegno formale e della peculiare organizzazione stilistica del romanzo. Esso, infatti, si allontana notevolmente dalla ricca capacità di racconto che sorregge il maggior testo del genere picaresco in Spagna e, a differenza del "Guzm n de Alfarache" di Mateo Alem n, risulta privo di un'autentica tensione narrativa. La proliferazione del racconto vi è infatti affidata pressoché esclusivamente a motivi e temi propri del trattatista (o del moralista) che con arguzia e ingegno usa un linguaggio brioso e scoppiettante per rendere attraente al lettore il succo talvolta amaro del suo argomentare.
Inutile dire che un libro scritto con questo intento, e in questo modo, risulta un banco di prova terribile per ogni traduttore, sia per l'obiettiva difficoltà di rendere i giochi di parola, le allusioni, i doppi sensi e quanto altro l'autore s'adopra e s'ingegna a fare pur di tirar avanti il suo discorso, sia per la distanza intervenuta tra gli ordini della prosa moderna con abbandono della retorica arguta nel terreno più propriamente scientifico, come ben sanno i lettori di Bruno, autore non lontano da Quevedo per epoca e propensione all'uso della retorica letteraria artificiosa al servizio di un pensiero ambizioso. Maria Rosso che ha curato l'ultima traduzione apparsa in Italia del "Busc¢n*, tradotto con "L'imbroglione", anche se a un certo punto si affaccia nel testo la possibilità di attribuire al personaggio l'epiteto di accattone, gravido di risonanze pasoliniane, è uscita vittoriosa dalla prova. E la sua vittoria è tanto più grande quanto essa solo in parte si deve alla dovizia delle note e alla sua dottrina, mentre si afferma nell'intuizione di un registro che recupera la dimensione "seria" proprio dove è più violenta e scoperta l'irruenza giocosa, talvolta goliardica.
Resta una considerazione da fare. Questa è la terza edizione italiana del libro di Quevedo in meno di due anni: la precedono il volume della Bur curato da Maria Grazia Profeti (anch'esso con testo a fronte) e quello di Garzanti, nella serie economica dei "Grandi libri", a cura di Raoul Precht. Tanto successo o interesse trovano giustificazione solo nell'estensione del libro - di gran lunga inferiore ad esempio a quella del "Guzm n*, o si deve anche ad altro motivo?
La ricerca del nuovo personaggio nell'età del moderno in Italia imbocca strade diverse da quelle del grande romanzo in prosa e ha una forte caratterizzazione saggistica: i nuovi eroi sono il principe, il cortigiano, l'attore, come ricordava Salvatore Battaglia nella sua "Mitografia del personaggio" (ora riproposta da Liguori). Talvolta questa potrebbe essere una spiegazione non effimera della scelta che nel grande romanzo picaresco spagnolo finisce per privilegiare il discorso sul racconto. Ma si rammenti che non è stato così nel momento della ricezione immediata del nuovo, quando le forme innovative della narrativa iberica trovarono, tra XVI e XVII secolo, un'eco notevole tra editori, traduttori e stampatori e, ovviamente, tra i curiosi lettori italiani del momento.
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