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recensione di Corona, M., L'Indice 1997, n. 9
Nell'Europa di metà Settecento il concetto di mascolinità viene sottoposto a un processo di sistematizzazione che George Mosse indica come una delle premesse indispensabili per l'avvio dell'epoca moderna. Le antiche qualità virili - forza di volontà, onore, coraggio - permangono; le nuove scienze dell'antropologia e della fisiognomica ne postulano ora una sorta di incarnazione nel corpo dell'uomo, sicché la bellezza fisica diventa prova visibile della virtù.
Ma in quali modi e forme si individua la bellezza virile? Una consolidata tradizione la riconosceva nelle immagini lasciateci dalla scultura greca. Fu Winckelmann a compiere la necessaria operazione di recupero, introducendovi però una contraddizione esplosiva. Winckelmann amava gli uomini, e dunque, come i Greci, non aveva problemi nel riconoscere a quei corpi la loro naturale sensualità, così profondamente disturbante per la cultura del suo tempo, avviata a una sempre più dura repressione sessuale. Perché il modello greco fosse socialmente accettabile occorreva anestetizzarlo e riproporlo in chiave de-erotizzata, idealistica, come prototipo di una bellezza serena, armoniosa, espressione di una forza controllata. Questo, almeno, nelle formulazioni teoriche e, per così dire, ufficiali. Rimaneva il fatto che "comunque si fosse evoluto lo stereotipo maschile, gli esordi di un'immagine che avrebbe informato a sé l'ideale normativo della mascolinità - l'inglese tutto d'un pezzo, il bravo ragazzo americano, e via dicendo - scaturivano da una sensibilità omoerotica".
Winckelmann riportava infatti al centro dell'ideologia patriarcale dell'Occidente cristiano un'immagine maschile pur sempre pagana, pur sempre rappresentata nel fiore di una pienezza fisica e sensuale accanitamente mortificata dal cristianesimo per secoli e secoli, fino al Rinascimento, che aveva infine operato un recupero seppur parziale di valori precristiani. E ora, agli albori della modernità, ovvero dell'epoca che avrebbe daccapo imposto alle masse la mortificazione del corpo non più a fini di penitenza spirituale ma di produttività materiale, ecco che il paradigma maschile torna a modellarsi su un'immagine pericolosamente seduttiva.
La cultura di fine Settecento e ancor più quella dell'Ottocento dovranno costruire imponenti dispositivi ideologici per annullare la carica sensuale di quell'immagine nuda che viene da lontano. Il cristianesimo torna a combattere la sua eterna battaglia sessuofoba, e in parte la vince, a un prezzo non indifferente. Il corpo ottocentesco, maschile, femminile e persino infantile, verrà seppellito sotto tonnellate di stoffa. Il corpo maschile, in particolare, sarà ricoperto da abiti standardizzati, impenetrabili e luttuosi, e, quando svestito, sottoposto alla spartana disciplina della ginnastica, che prepara alla lotta, allo sport, al duello, alla guerra, ovvero a quella mascolinità aggressiva così funzionale ai nazionalismi del Novecento. Nelle raffigurazioni iconografiche, che ora si avvalgono anche della fotografia, il corpo sensuale rimane quello della donna, eterno oggetto della "conquista" maschile, mentre il corpo maschile si depura delle sue potenzialità erotiche per diventare il corpo eroico del guerriero.
Naturalmente, osserva Mosse, perché uno stereotipo si affermi deve crearsi il suo opposto, il controtipo, da individuare nei "deboli", che saranno, come già nel medioevo, "le persone instabili, prive di radici: gli zingari, i vagabondi, gli ebrei (...), i criminali abituali, i pazzi, e i cosiddetti deviati sessuali", oltre, ovviamente, alle donne, da sempre ritenute incapaci di autogoverno. E ora il controllo e la persecuzione si fanno più sistematici, col soccorso della scienza medica che stigmatizza isterie - prima femminili e poi anche maschili: quelle degli "uomini nervosi" ovvero effeminati - e alterazioni comportamentali di ogni tipo, attribuite vuoi all'onanismo (forma erotica eminentemente improduttiva e che sfugge al controllo sociale) o alla temuta sifilide (giusta punizione per i fornicatori), o a tare genetiche e razziali.
Su queste posizioni variamente maschiliste, violente e razziste si ritrova l'intera destra europea, da de Maistre a Jahn, Fichte, Grégoire, Doré, Weininger, JYnger, Montherlant, Drieu La Rochelle, Saki, Papini, fino allo Hitler di "Mein Kampf". La fascinazione esercitata dal maschio eroico e combattente agisce del resto anche su alcuni scrittori omosessuali, come Siegfried Sassoon, Wilfred Owen e T. E. Lawrence, che proprio in quanto artisti sentivano pesare su di sé il sospetto di essere meno "uomini" dei "veri uomini".
Un altro sospetto molto diffuso è che gli ebrei, regolarmente rappresentati come brutti, deformi e anche effeminati, organizzino complotti su scala mondiale, come gli omosessuali. Verso i quali ultimi nemmeno il rivoluzionario Friedrich Engels era granché tenero. Quando Marx gli inviò, nel 1869, uno dei primi appelli per i diritti degli omosessuali, Engels reag", dice Mosse, "con orrore e spavento". Toccherà da un lato ai socialisti e ai movimenti per l'emancipazione femminile, e dall'altro a scrittori, artisti e intellettuali come Whitman, Wilde, Hirschfeld, Jean Lorraine, Natalie Barney e tanti altri e altre, il compito di elaborare un modello di virilità diverso e più accettabile, fondato sui valori della solidarietà, dell'eguaglianza dei sessi, e sul rifiuto della violenza e del nazionalismo, proprio mentre in Germania, in Inghilterra e altrove si promulgano leggi punitive nei confronti dei "deviati".
Il comunismo elegge a campione della lotta di classe, preludio all'abolizione della famiglia e dello stato, un maschio potente e aggressivo, non necessariamente bello e di solito vestito. Fascismo e nazismo riprodurranno invece in pieno la contraddizione originaria, esaltando fino al parossismo il maschio guerriero bello, forte e nudo, che trova nei camerati la società più congeniale (dai "BYnde" alle SS), cementata dai vincoli comuni dell'azione, del sangue e della patria. Al tempo stesso essi continuano a vedere nella famiglia, luogo della domesticità e del femminile, e dunque della potenziale svirilizzazione del guerriero, la cellula fondante dello Stato.
Oltre che alle proprie contraddizioni, lo stereotipo maschile, pur qua e là sgretolato, sopravvive comunque anche al crollo delle dittature, in quanto determinato, conclude Mosse, non soltanto dai rapporti di potere, ma da un fitto reticolo di codici morali e di comportamento in cui la rispettabilità continua a giocare un ruolo centrale.
Di quest'ultimo lavoro dell'illustre storico del razzismo e dei nazionalismi si apprezzano sicuramente l'ampiezza dello sguardo e della documentazione, la capacità di sintesi, la scorrevolezza e l'organicità dell'esposizione. Eppure, alla fin fine, una perplessità rimane. Per la formazione del moderno codice della mascolinità era proprio indispensabile il ricorso all'immagine nuda di un corpo bello? Non bastava che fosse forte, come infatti Mosse ci dice che bastò all'iconografia sovietica? Come mai allora nell'Occidente così saldamente legato alla nozione della rispettabilità borghese non accadde altrettanto? Come convivono l'industrioso perbenismo e la bellezza nuda, se non in un rapporto tortuoso di desideri negati, di fantasie represse che trovano infatti la loro strada segreta nei bordelli e nella produzione pornografica così fiorente proprio nell'Ottocento? E in che rapporto stanno la rispettabilità borghese e il fascismo, il nazismo, la loro glorificazione del corpo maschile bello e nudo e sensualissimo, testimoniata dallo Stadio dei Marmi a Roma o da "Olympia" di Leni Riefenstahl? Per non parlare delle SS e delle loro non sempre impeccabili propensioni sessuali. Da Mosse si sarebbe forse voluto qualcosa di più di quanto già non dica sulla sostanza profonda dell'omoerotismo maschile, indispensabile cemento delle istituzioni del potere patriarcale (esercito, chiese, scuole, confraternite, associazioni professionali, sport) e sul labile e tormentato confine che nell'Europa cristiana blocca - ufficialmente - ogni espressione sessualizzata di tale fondante legame. La doppiezza guerrigliera dell'operazione compiuta da Winckelmann su questo campo minato ricorrendo al linguaggio della classicità e dell'accademia avrebbe potuto assumere un risalto più spiccato, e i connotati ambigui e violenti della rispettabilità borghese si sarebbero ancor meglio evidenziati in tutta la loro genetica deformità.
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