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BECKETT, SAMUEL, Quello che è strano, via
BECKETT, SAMUEL, L'immagine. Senza. Lo spopolatore
recensione di Bertinetti, P., L'Indice 1990, n. 1
Da molti anni a questa parte la produzione letteraria di Beckett si è come rarefatta: pochi testi, spesso brevissimi, caratterizzati da una varietà di stili che rimandano alle sue precedenti esplorazioni delle possibilità della parola letteraria, ma che ogni volta si propongono come nuove scoperte della potenzialità della parola e della sua necessità.
Sono così apparse, per limitarsi alle prose, le dense pagine barocche di "Compagnia" (1980) e quelle limpide e misteriosamente serene di "Mal visto mal detto" (1982), le parole prosciugate e depauperate di "Worstward Ho" (1983) e quelle così intensamente liriche nella loro scarna semplicità di "Stirrings Still" (1989). In questi pochi fogli è raccolta l'estrema testimonianza del maggior protagonista della scena letteraria europea del dopoguerra, di uno scrittore grandissimo, la cui estraneità alle mode e alle correnti promosse dall'industria culturale, e la cui antiteticità alla faciloneria che imperversa nelle rubriche letterarie di quotidiani e settimanali, lo ha relegato nell'angolo degli scrittori difficili, di cui è uso dire bene, dire poco, spiegare nulla.
Per i non molti e affezionati lettori di Beckett quelle pagine sono invece troppo poche; e si vorrebbe poterne leggere altre, poter ancora essere condotti per mano in quel suo pianeta letterario che così bene ci mostra le miserie del nostro pianeta.
Ed ecco giungere così, non come operazione commerciale, bensì come risposta al desiderio di colmare possibili vuoti, la pubblicazione di lontani scritti che testimoniano il lavoro di Beckett sulla parola letteraria.
"L'immagine", stampato da Minuit come testo autonomo nel 1988 ma già apparso su una rivista nel 1959, e che viene ora pubblicato da Einaudi insieme ai già noti "Senza" e "Lo spopolatore", è la variante di alcune pagine di "Come è" (1961), l'ultimo romanzo beckettiano. L'immagine è quella che "viene" a Bom, il narratore che vive e striscia al buio e nel fango, un ricordo solare di quando ancora camminava "sotto il mutevole cielo". Rispetto alla versione di "Come è" qui è più evidente, come dice Oliva nella sua bellissima postfazione, "il lavoro di invenzione e di scrittura, l'artificio, la manipolazione, l'intervento dell'artefice", con un procedimento di svelamento della finzione letteraria che percorre tutta l'opera di Beckett. Ma è anche evidente quel lavoro di de-costruzione dei personaggi che lo porterà ai corpi immersi negli spazi astratti, metafisici, delle prose degli ultimi vent'anni.
Tale operazione è particolarmente riconoscibile - osservabile, per così dire, nel suo farsi - in "Quello che è strano, via", cioè "All Strange Away", un testo scritto da Beckett intorno al 1963 che a buon diritto possiamo considerare come la fonte e il laboratorio di quasi tutta la successiva opera narrativa. Per uscire dall''impasse' seguita alla "Trilogia" Beckett aveva cercato nuove strade lasciando il francese e ritornando all'inglese di "From an Abandoned Work". Dopo "Come è" Beckett ricorse di nuovo alla lingua inglese per ritentare una nuova avventura della parola letteraria con "All Strange Away". Il risultato non gli sembrò soddisfacente e soltanto molto più tardi il testo fu dato alle stampe; ma negli anni seguenti, tornato al francese, Beckett si avvalse ampiamente della tecnica e dell'idea narrativa elaborata in questo racconto.
Per gli studiosi di Beckett e per i suoi appassionati lettori il breve testo si presenta quindi come un ricchissimo terreno di caccia alla anticipazione (a partire dalla prima frase, "Imagination dead imagine", che diventerà il titolo, "Imagination morte imaginez", del successivo racconto scritto in francese), al riconoscimento delle formule e degli elementi descrittivi che caratterizzeranno i testi seguenti. Per non parlare delle citazioni mascherate, come quella "nera vocale a" dell'ultima pagina, che viene da "Vocali" di Rimbaud.
Per il normale lettore la lettura si presenta assai più ardua e assai meno gratificante. Eppure ci troviamo di fronte a un narratore che si rivolge direttamente a lui, che lo chiama apertamente in causa per contribuire alla costituzione del racconto in base a quanto egli descrive. Il narratore lo guida attraverso una descrizione che si rivela una ricerca, per approssimazioni successive, dell'oggetto della descrizione. Non c'è vicenda, non ci sono personaggi; c'è un parallelepipedo senza entrata né uscita in cui compaiono due corpi, in un alternarsi di luce e di buio, di silenzio e di suono. Poi le dimensioni del luogo vengono corrette, è un cubo di tre piedi per tre in cui c'è soltanto un corpo femminile; poco dopo viene detto che il luogo non è più un cubo, ma una rotonda di tre piedi di diametro, anzi di due piedi, in cui giace una donna la cui mano sinistra stringe debolmente la spalla destra. L'ultima parte di "Quello che è strano, via" cerca di fissare, giocando su questi pochi particolari, un'immagine finale nello spazio della mente dove l'immaginazione è morta e dove tuttavia lo scrittore chiede la nostra complicità in questa ricerca estrema dell'immaginazione letteraria.
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