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Occuparsi della storia dell'arte antica significa per molti versi occuparsi di fantasmi: della policroma produzione architettonica e scultoria dell'antichità, oggi non resta che il bianco sostrato del supporto marmoreo; della pittura, per l'intrinseca deperibilità del supporto, pressoché nulla. Talvolta, direbbe Bernardo di Morlaas, nomina nuda tenemus: il tempo, più clemente con il testo che con l'iconografia, ci ha conservato la descrizione scritta di un quadro. Il testo proposto da Carbone e Cometa, pur non contenendo mai la parola chiave ekphrasis, è, per l'appunto, il prototipo della letteratura ecfrastica occidentale. Evanescente l'autore, un Filostrato non facilmente individuabile, evanescenti anche le opere descritte, forse o forse no effettivamente esposte in un portico-galleria di Napoli. E tuttavia, la loro descrizione risulta talmente vivida da aver costituito effettivamente un archetipo i cui risultati si possono rinvenire nelle opere di Poussin, Reni, Rubens, Caravaggio e innumerevoli altri. La finzione letteraria che rende possibile le Immagini è il dialogo dell'esperto di arte con un ragazzino; la scrittura filostratea è fortemente visiva e sinestetica, con continui inviti all'allievo (e, su un altro piano di realtà, al lettore) a immergersi in una sospensione dell'incredulità non esente da studiate fratture. La scrittura sfida apertamente la pittura per la palma del miglior modo di descrivere la realtà, rinnovando l'eterna e talora stucchevole polemica fra sostenitori dell'immagine e della parola; la vivace traduzione di Carbone rende bene la straordinaria efficacia del testo.
Massimo Manca
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