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recensione di Tortonese, P., L'Indice 1991, n. 1
Come Chateaubriand, anche Jean Genet ha voluto farsi seppellire di fronte al mare, su una costa alta e scoscesa. Ma non ha scelto le rive familiari della Bretagna, lui che non aveva famiglia; ha preferito il piccolo cimitero spagnolo di Larache, vicino a Tangeri, in Marocco. Il luogo è scelto con cura: pare confini da un lato con un cimitero, dall'altro con un bordello. La morte e il peccato vegliano dunque sui resti di Jean Genet, restituendogli un po' di calore familiare.
La scelta geografica, Mediterraneo contro Atlantico, Africa contro Europa, ha il vantaggio di ribaltare la prospettiva, e di salvaguardare la continuità simbolica del letterato (ancora un volta solo di fronte all'infinito) pur situando il suo sguardo postumo in posizione di contraddittorio, e di sfida.
Dal balcone dell'Africa Genet guarda i bianchi come dovrebbero guardarli i negri, come li guardano i negri della sua "pièce", dall'alto del palcoscenico. Che poi questo punto di vista adottato nella morte, così simile al punto di vista dell'attore, o meglio del personaggio, della maschera, sia prospettiva della verità sulla menzogna, sguardo folgorante dell'autentico sul compromissorio, oppure contrapposizione dell'immagine alla realtà, insorgere dell'estetica di fronte alla morale, è quello che ci chiediamo, cioè quello che la critica dovrebbe dirci.
Qualche risposta, o almeno qualche tentativo di agitare le diversi ipotesi, viene dal libro "L'immoralità leggendaria", in cui Sergio Colomba e Albert Dichy hanno raccolto saggi, articoli, testimonianze di varie epoche e di autori molto diversi, oltre che un'abbondante cronologia, teatrografia e bibliografia. Genet viene analizzato, sezionato, spiegato nei suoi diversi aspetti teatrali, mentre resta ai margini, volontariamente, l'autore di "Notre-Dame des Fleurs" e di "Querelle de Brest", il ladro-romanziere che doveva trasformarsi in drammaturgo dopo la crisi procuratagli dalla lettura di "Saint Genet, comédien et martyr", con cui Jean-Paul Sartre lo aveva spinto in paradiso. Gli interventi raccolti da Colomba e Dichy si dividono in tre sezioni: "Lo scrittore e l'estetica" (Bernard Dort, Lucien Goldmann, Monique Borie), "La critica e i testi" (Patrice Bougon, Oreste Pucciani, Jean-Bernard Moraly, Pierre Brunel, Michel Butor, Franca Angelini, più i due curatori), "Itinerario delle messinscene" (Carmen Compte, Roland Barthes, Roger Blin, Peter Stein, Franco Quadri, Maria Casares, Odette Aslan, Ettore Capriolo). Una sezione a parte è costituita da scritti di Genet, tra cui l'inedita sceneggiatura di "Mademoiselle".
Le diverse facce della vicenda teatrale iniziata con "Vigilanza stretta" e conclusa con "I paraventi" vengono quindi interpretate sotto gli occhi del lettore: testi, regie, discorsi teorici, andamenti della critica. Alla fine sembrano tutte convergere verso una triade problematica che concentra su di sè ogni attenzione. La scelta sembra essere tra l'impegno, la storia e il teatro. Scelta all'interno del teatro, in ogni caso. L'impegno si può presentare sotto le vesti di rivolta, denuncia, testimonianza, marginalità, ecc. È il Genet che piace ai giornalisti di "Libération", inclini alla versione sentimentale della rivolta, oppure agli ammiratori di Fassbinder più tenebrosi. È anche il Genet di Sartre, in bilico tra ingenuità e coscienza.
La storia, almeno in questo libro, resta invece tutta in mano a Lucien Goldmann, che la maneggia con solida disinvoltura. Ma è isolato: solo lui ritiene che nel "Balcone" ci sia "una trasposizione molto probabilmente inconscia e involontaria degli avvenimenti storici decisivi della prima metà del ventesimo secolo". Trasposizione tanto più importante quanto più inconsapevole, perchè l'inconscio collettivo che determina l'opera degli scrittori è secondo Goldmann la storia stessa. Il che permette di piazzare Genet fuori dall'impegno, ma proprio per questo più vicino alla corrente sotterranea del progresso.
Goldmann insegue i suoi miraggi, e tutti quelli che scrivono dopo di lui (il saggio qui pubblicato è del 1966) sembrano dargli torto. Soprattutto Bernard Dort, con un saggio che qui apre il volume, e che esprime nella maniera più precisa e più argomentata la terza ipotesi, quella secondo cui l'oggetto del teatro di Genet è il teatro stesso. L'ipotesi non è particolarmente originale dal punto di vista di una teoria dell'avanguardia artistica, ma non è per questo da considerarsi inetta. E si scontra con l'ipotesi dell'impegno in modo anche più radicale di quanto ci si aspettti.
Bernard Dort sottrae Genet alla tenerezza e alla rabbia della biografia, lo libera dal didascalismo inconscio attribuitogli da Goldmann, e lo sistema a fianco di Antonin Artaud nell'ambito di una critica del teatro occidentale. Ma poi lo sposta un po' più in là, non contento neanche di questa associazione, e distingue: Artaud contrappone al nostro teatro un sogno di teatro orientale, mentre Genet insiste sui caratteri del teatro occidentale, cercando di superarlo. Insistere vuoi dire sottolineare la reiterazione e il travestimento, esaltare l'artificiosità, la finzione. Non cercare sulla scena un valore simbolico generale, n‚ una verità trascendente ma semplicemente indicarne 1'artificio. "Rappresentare le Grandi Figure non vuoi dire riaffermare i fondamenti di una visione del mondo, ma segnarne l'ingresso nell'ordine dell'estetica", scrive Monique Borie. E Roland Barthes, in una breve recensione polemica contro la messa in scena di Peter Brook per "Il Balcone" conclude che l'unico "sacrilegio" che lo interessa in Genet e quello dell"'autorappresentazione" da parte del teatro. Tanto Bernard Dort quanto Monique Borie fanno poi precipitare questa celebrazione di un rito solipsistico, o questo ripiegamento riflessivo, in una sorta di autocombustione del teatro, che lascia soltanto ceneri e morte.
Genet sembra dar loro ragione quando parla di "un luogo prossimo alla morte, in cui tutte le libertà sono possibili", e in cui lavora l'attore. Ma Genet non ha sempre detto la stessa cosa; si è difeso in modi contraddittori. Ha dichiarato che i suoi "Paraventi" si esauriscono "in un campo in cui la morale è sostituita dall'estetica", ma altrove ha affermato che il suo teatro "introduce nell'animo dell'oppressore il dubbio e il malessere per la propria ingiustizia". L'ambiguità resta, e l'incertezza anche; ma visto che erano già in lui, forse possiamo permettercele anche noi.
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