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Anno edizione: 2016
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Siamo circondati dalle "imposture": miracoli, prodigi, pratiche magiche e performance religiose, e poi santi come se piovesse, con il nuovo corso inaugurato da Giovanni Paolo II - e si sa, "ogni santo qualche miracolo deve averlo fatto". Pensare che qualcuno aveva proclamato la "fine delle ideologie". Chi si sarebbe aspettato il massiccio ritorno, al loro posto, delle religioni, "cioè le imposture allo stato originario", come Viano le definisce? E chi si sarebbe aspettato di vederle così vezzeggiate non solo dai media, ma anche dalla "cultura dotta"?
Nei confronti di quest'ultima Viano è particolarmente severo. I filosofi, soprattutto, vengono accusati di connivenza: insegnano "come evitare di riconoscere che i miracoli sono dei falsi, delle imposture". Il trucco consiste nel distogliere l'attenzione - e l'esercizio dell'intelligenza - dai fatti per concentrarla sui significati. Così i filosofi contemporanei, "tutti persi dietro il senso delle cose e un po' dimentichi delle cose", possono civettare con i preti e con i santi che oggi occupano prepotentemente la scena mediatica. È un trucco vecchio quanto il mondo, o almeno quanto la filosofia, che Viano ci mostra fin dalle origini - fin da Platone e Aristotele - impegnata nell'arte del compromesso con le religioni. In particolare questo libro ricostruisce, in modo piacevole ed erudito, una lunga vicenda di dotti accomodamenti in tema di "miracoli".
Si parte dal mondo romano: Numa Pompilio ottiene l'obbedienza del "popolo ferocissimo" fingendo di essere consigliato da una ninfa; Cicerone e gli stoici danno una mano alla restaurazione augustea salvando i miti degli avi; fino alla variegata religiosità del tardo impero che vede impegnati i primi cristiani e gli ultimi pagani nella nobile gara a chi fa i prodigi più belli e più buoni, sotto gli acchi assai indulgenti di neoaristotelici e neoplatonici. Poi la palla passa definitivamente ai cristiani. Aristotelismo e neoplatonismo suggeriscono ancora una volta le vie dell'interpretazione dei miracoli - segni della divinità inseriti nel disegno provvidenziale - e si mostrano anche buoni strumenti di controllo contro i rischi di eccessive proliferazioni.
La vicenda procede, con la cultura umanistica si fa strada un pericoloso senso del relativismo storico mentre la ragione comincia a rivendicare la propria autonomia. In questo clima i miracoli vengono riconosciuti come "imposture", ma salvati a uso delle anime semplici: la religione dei dotti - di fatto coincidente con la "religione naturale" - non ne ha bisogno, ma occorre pur mantenere l'ordine e inculcare un po' di morale anche a coloro che non sono in grado di farsi illuminare dalla sola ragione. Tra i sapienti i miracoli tornano in auge quando il protestantesimo tenta di chiudere l'età dei miracoli e attacca con "i rottami dell'aristotelismo" (un aristotelismo che dopo Cartesio ha ormai perduto la cosmologia) la transustanziazione. Il dibattito inglese sui miracoli, che si svolge nel clima filosofico dell'empirismo e del razionalismo, finisce con il consegnare a Hume un "argomento decisivo" contro i miracoli in generale, tanto forte da "ridurre al silenzio il bigottismo e la superstizione più arroganti". Siamo ormai all'epoca dei Lumi, la stagione più dura per le religioni: il castello delle "imposture" sembra destinato a crollare sotto il peso del progresso scientifico.
Ma è di nuovo la filosofia a dare una mano, nel secolo appena trascorso: l'occasione d'oro è la conclamata "crisi delle scienze" che a cavallo del secolo interrompe bruscamente l'avanzata del positivismo. Il "nuovo spirito scientifico" che ne emerge è ipotetico, probabilistico, artificiale, anti-intuitivo, appannaggio di pochi specialisti. Non vanta più la pretesa di "rispecchiare" la realtà, né le pur fragili certezze del vecchio empirismo, né l'esclusività della conoscenza, e nemmeno la fiducia di conquistare, almeno in parte, il senso comune. I miracoli e le religioni possono allora riguadagnare credibilità come "altre forme di esperienza, ugualmente legittime, o forse più legittime perché ampiamente condivise".
Viano conclude la vicenda proponendo una diversa strategia per poter parlare ancora di "imposture". Non si tratta più di contrapporre ai prodigi le certezze scientifiche, l'autore sembra considerare questa via ormai definitivamente preclusa. Si tratta piuttosto di giocare un'altra carta della cultura occidentale: quella della separazione del potere politico dal potere religioso, che è costitutiva delle nostre società e che significa secolarizzazione, ossia confinamento della religione nella sfera privata, interdizione della sfera pubblica alle credenze. Questa, secondo Viano, è "la vera barriera che i miracoli non possono varcare". Abbiamo il diritto - e il dovere - di chiamare ogni residua intrusione con il nome che le spetta: "impostura".
Un'impostazione rigorosa e condivisibile. Forse sacrifica un po' troppo le ragioni della scienza: il "nuovo spirito scientifico" è davvero filosoficamente indifendibile, davvero è interpretabile soltanto entro coordinate irrazionaliste? Sospetto che questa sfiducia nella scienza sia piuttosto una caratteristica della cultura filosofica italiana, così pesantemente segnata dall'insegnamento crociano e dalla caccia ai positivisti: Viano del resto ce lo ricorda molto bene nell'introduzione, illustrando la "breve stagione" del neoilluminismo torinese. In questa cultura i filosofi hanno finito per perdere ogni rapporto con le scienze della natura e i loro "pseudoconcetti", segregandosi in quel mondo dello spirito dove, alla fine, per far due chiacchiere non restano che i preti.
Maria Turchetto
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