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Anno edizione: 2020
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No, No...Nessuno osi accostarsi a questi luminosi frantumi di poema, a questo corpo a corpo fra la vita e il linguaggio come a un facile delirio sacrilego. Questa è una commossa lettera d'amore, l'intenso cedimento lirico a cui un uomo morente si dona in una confessione di sfrontata sincerità. Urtanti, imprendibili periodi in pagine volutamente trafitte in ogni piega del costato, ribellione e denuncia, preghiera e bestemmia, punteggiatura uguale a rovi uccisi o crepitanti in un'estrema febbre interiore. Niente è senza colpa, nessuno è assolto. Né l'io né la società, né le inutili rincorse di senso a spiegare il desiderato buio di una scelta: "Colpa siamo. Della colpa nostra. Et maximissima di noi. Et singula". Monologo di durezza irrespirabile, stenti di verbo a inseguire una trama di ferite insanabili, crune di carne aperta dentro cui la droga scorre come un secondo inchiostro, diventando al tempo efferato sicario e musa che ispira l'ultimo saluto alle cose: "Perché io dove vado. Io. Non son capace. Io. Di portar felicità. Io". E più avanti: "Gli scalini scender di quella che usa nominarsi abiessiòne. Quell'abiessiòne che poi. Per me era. Per me. Diventat'era la sola maniera nella quale dimenticar potessi". Un canto straziante, balbettato, supplica lucida ed urlo disumano dentro "l'ischeletrito nulla" di una voce, mentre, sullo sfondo, Milano è nuda fra accuse e rancori nel ventre di ogni rigo, in ogni lacrima corrotta. Testori meraviglioso, dolcissimo e barbaro, poeta del limite, di un insano che non vuole requie, e dentro una fierezza che spazza via ogni retorica e diventa tagliente e casta "nell'immensa strada dell'inumano vuoto". Domande senza spiragli: "Chi può rispondere a chi è chi?", mentre si scendono scalini d'inferno sognando mani materne, mani della Vergine, "Signora del latte". Non resta che farsi trafiggere in questa fossa di bave e di singulti dove un reietto ci insegna la fine. E l'amara certezza che se ne uscirà sconvolti. "Ora pro me. Prega".
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