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Per Anna Maria Ortese, qualsiasi cosa tocchi con la parola, la materia si trasforma in quella «materia indivisibile di cui parla la fisica nei suoi momenti di sogno». Come ogni vero scrittore fantastico la Ortese, probabilmente, non vorrebbe essere tale. Vorrebbe soltanto nominare la realtà che conosce. Ma la sua realtà è subito allagata da una piena di immagini, che la rendono multipla, variegata, senza fondo. «Tutto era infinitamente più grande, più mutevole, più bizzarro di quanto io potessi capire»: questa sembra essere stata, sembra essere ancora, per lei, la sensazione primaria. In questo nuovo libro di racconti, il primo dopo lunghi anni di silenzio, ci troviamo da un capo all’altro immersi in questa realtà seconda, spesso angosciosa, o minacciosa, ma anche talvolta attraversata da un trillo di incantevole comicità o da un’aerea ebbrezza.
Oltre a quello narrativo, vi è poi un altro versante nella sua opera, che si mostra nelle ultime due, mirabili prose di questo libro. Come definirle? Meditazioni? Comunque, proprio in questa zona, nella conversazione immaginaria intitolata Piccolo drago, incontriamo una autoconfessione che accende la lingua italiana di un pathos visionario quale raramente ha avuto l’occasione di ospitare. Qui stillano come gocce infuocate le parole di qualcuno che può dire di sé: «l’inferno di questo secolo non mi fu ignoto né estraneo». E qui la voce della Ortese, che altrimenti sussurra «in sonno e in veglia», improvvisamente vibra di offesa eloquenza per difendere l’esistenza animale, che è anche la nostra esistenza animale, di quella parte di noi che appartiene ai «popoli muti di questa terra, i popoli detti Senza Anima – dal Dittatore fornito di anima – e per di più mortale! – che è il loro carnefice da sempre».
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
La visionarietà e la lucidità della Ortese raggiungono un connubio a tratti perfetto in questi dieci pezzi, tra narrazione, visione, monologo e riflessione critica. La maggior parte dei pezzi sono contemporanei a quelli di Corpo celeste, contraltare critico e memorialistico, della poetica ortesiana e in cui l'autrice ha messo davvero una gran parte di sé. In sonno e in veglia alterna quindi la volontà di riflessione e meditazione degli ultimi anni della sua vita a stralci di grande potenza narrativa e visionaria, che anticipano, per temi e linguaggio gli ultimi due grandi romanzi. Lo consiglio a tutti.
Se scrivere è tornare a casa, come l’Autrice ebbe a sostenere, per me semplice Lettore (uso la maiuscola in accordo al costume della scrittrice), lo è leggere le sue opere. Questa raccolta di una diecina di scritti, di cui la metà inediti, si compone di racconti per lo più ed altre prove a metà tra il saggio e il manifesto d’intenti, o meri sfoghi. L’irreale, il sogno, come rifugio da quella realtà oppressiva che la spingeva a restarsene il più possibile in casa. E la pena per la moltitudine oppressa degli esseri c.d. inferiori, indifesi, massacrati e umiliati sino a ricevere un rozzo sputo negli occhi, come estremo disprezzo, più doloroso d’una ennesima piaga inferta alle carni, per un mancato sforzo impossibile a realizzarsi. Volendo ricorrere a quelle etichette che tanto confortano, la si potrebbe definire, forse sì forse no, autrice d’impostazione ecologica, o ecosostenibile, di sinistra secondo l’accezione della sua epoca, ma certamente fabulosa (cfr. la breve favola del maestro-orso, tra le pagine più riuscite), inquietante e affascinante.
Recensioni
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recensione di Cavaglià, G., L'Indice 1988, n. 3
Dieci racconti, di cui cinque inediti sono riuniti in questo volume sotto un titolo che è una cifra della poetica dell'autrice. Caratteristico del suo modo di narrare infatti il repentino trascorrere da un tono sobrio e pacato, a cui presiede lo stato di veglia, a guizzi di visionarietà surreale, che fanno pensare a immagini oniriche. E i due registri, quello del sonno e quello della veglia, sono indistricabilmente fusi in queste storie, a volte autobiografiche, ambientate in interni, in appartamenti nascosti fra il verde, nelle pieghe di colline, o in dimore di campagna. Nel seno di questi spazi tanto domestici si annida il "terrore sottile del vivere" di cui l'autrice parla nell'immaginaria intervista che conclude il libro, intitolata "Piccolo drago". È il terrore del vivere, la paura di ciò che sta fuori a mettere in movimento la narrazione nel primo racconto, "La casa nel bosco", in cui l'irrompere dell'ignoto - anche nelle forme apparentemente banali di un visita dei ladri o dell'intervento di un idraulico - fa lievitare la prosa verso dimensioni surreali. L'angoscia di una guerra lontana trasforma l'innocente vagabondare della protagonista di "Folletto" a Genova in un'avventura straordinaria e dà corpo a uno straziante essere semiumano inventato dall'amore per il reietto, l'animale, la creatura offesa che è al centro del mondo poetico della scrittrice. Il sogno, il surreale, si precisano a poco a poco come lo spazio in cui vive, relegata, la memoria del bene, vero e proprio "continente sommerso" (è il titolo di un racconto che si allarga nei toni della prosa filosofica, di meditazione). Ogni pagina del libro è per il lettore un'esperienza sconcertante: la Ortese ci mostra le cose più quotidiane come se le scoprissimo per la prima volta, create da lei, dal suo linguaggio. Questi racconti non lusingano l'attenzione con facili concessioni: anche i meno inquietanti a prima vista, come "La visita" o "Nebel", risultano alla fine incrinati da un'angoscia che non lascia respiro. Tutti però elargiscono il piacere, raro, di assistere a un evento eccezionale: la nascita di uno stile complesso e stratificato, una delle voci del continente sommerso, altrimenti condannate al silenzio.
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