Indice
Le prime pagine del romanzo
Conservo l’elenco delle prime parole di Arden. Tina, mama, ghetti, papa. Lo conservo con amore, lo tengo nel portafoglio. Tina, mama, ghetti, papa, nonna, accobaleno, succo. Le cose più importanti della sua vita: la copertina rosa consunta, il suo tipo di pasta preferito, Theo e me. Mi manca, la mia bambina. La sera stessa della sua partenza per il college mi ero stesa sul suo letto sfatto, respirando il profumo di shampoo al cocco e bagnoschiuma alla pera che era rimasto tra le lenzuola.
«Come festeggiamo?» mi chiede mio marito.
Credevo se lo fosse dimenticato. Forse, se devo essere sincera con me stessa, lo speravo.
Theo si piazza davanti allo specchio del bagno con gli occhi socchiusi e il mento sollevato, come fa ogni mattina, per controllare di essere a posto. Mi chiedo se abbia ricevuto un’imbeccata o se – incredibile ma vero – se lo sia ricordato da solo.
«Non saprei.» Chiudo il rubinetto e poso lo spazzolino nel bicchiere. Non ho nessunissima voglia di farmi bella e spendere soldi per festeggiare il nostro anniversario di matrimonio. Il solo pensiero mi fa venire voglia di rannicchiarmi in posizione fetale sotto le coperte.
«Chiedi e ti sarà dato», promette Theo. «Qualsiasi cosa, per la mia mogliettina adorata.»
Sappiamo benissimo tutti e due che non sarà possibile esaudire ogni mio desiderio.
«Abbiamo quella tavolata che ti dicevo, stasera», gli ricordo. Undici coppie di studenti appena tornati dalle vacanze, giovani, chiassosi, impacciati nei vestiti eleganti. Mance risicate, grande spreco di cibo lasciato nei piatti e spiaccicato sulla tovaglia, bagni ridotti in condizioni pietose. Ma in tempi di vacche magre si accetta tutto e negli ultimi sei mesi le vacche hanno perso peso in modo preoccupante.
«Per le nove avranno finito, no? Facciamo qualcosa dopo.»
«Non posso chiudere così presto, lo sai.»
C’è sempre la possibilità che dopo il teatro arrivi qualcuno, anche se da un po’ di tempo a questa parte accade sempre più di rado. Per quale motivo? Troppi piatti di pesce e troppo pochi vegetariani? Il trend è cambiato senza che ce ne accorgessimo? Un tempo avevamo la coda fuori della porta. Adesso, quando vedo qualcuno sul marciapiede leggere il menu affisso in vetrina, mi ritrovo a trattenere il fiato.
«Lascia che per una sera ci pensi Vince. Quante volte va via prima di te?»
«Okay. Glielo chiedi tu o glielo chiedo io?» Chiudo lo sportello con un po’ troppa foga e le boccette dei medicinali dentro l’armadietto tintinnano.
«Senti, Nat, in qualche modo dobbiamo festeggiare. Il diciannovesimo anniversario di matrimonio capita una volta sola nella vita.»
Raccolgo i capelli nella consueta coda di cavallo. «Se è così importante, come mai non abbiamo deciso prima come festeggiarlo?»
Theo resta interdetto.
Vado di sotto e vedo che i bambini mi aspettano nell’ingresso.
Snobbate le cartelle colorate del reparto «Ricomincia la scuola!» si erano diretti a passo di marcia verso l’espositore di zainetti per adulti da cui avevamo scelto quello di Arden.
Sicuri di non volere quello di Batman? gli avevo chiesto. O quello di Hulk? Oliver aveva lanciato un’occhiata in tralice al fratello gemello, che aveva incrociato le braccia e messo il broncio. Oliver si era subito adeguato. E così eccoli lì, due bambini di sei anni con un enorme carapace nero sulla schiena. Dentro ci sono soltanto un quaderno a quadretti e una matita temperata. Vince apprezzerebbe la dimostrazione di solidarietà di Oliver e Henry, ma a Theo non lo posso dire. Sono tante le cose che non posso dire a Theo.
«Vi siete lavati i denti?» chiede lui ai nostri figli, che annuiscono solennemente.
Li ho sentiti contare nel bagno, la bocca piena di schiuma: Otto, nove, dieci! È sempre Henry a contare e ad accertarsi che Oliver si spazzoli bene anche la lingua. Mi fa vomitare! protesta lui. Sono diversissimi, benché siano nati a quattro minuti di distanza l’uno dall’altro.
Henry urlava come un ossesso, quando il dottore lo aveva sollevato per mostrarmelo; il silenzio di Oliver invece era inquietante. Non l’avevo potuto vedere né tenere in braccio fino al giorno dopo, quando Theo mi aveva portato in sedia a rotelle davanti all’incubatrice in cui Oliver era coricato: aveva braccia e gambe distese e il petto praticamente immobile. Era piccolissimo. Vederlo così mi aveva fatta andare nel panico. Poi Oliver si era voltato verso di me e aveva sbattuto le palpebre.
Stamattina stringe saldamente il suo formicaio: un espositore di plastica con qualche centimetro di terra fra due vetri che lasciano intravedere i cunicoli scavati dagli insetti. Il bassotto è acciambellato ai suoi piedi, il muso sollevato verso di lui. Venerdì tocca a me fare la presentazione in classe, aveva detto ad Arden su Skype. Non so cosa portare. Io mi stavo preparando la borsa, ma avevo smesso e avevo aguzzato le orecchie. Che cosa ha portato Caleb? avevo sentito che chiedeva Arden. Una palla da baseball, aveva risposto Oliver, sconsolato.
Be’, puoi fare di meglio! Perché non presenti uno dei tuoi esperimenti scientifici?
Tipo il formicaio? aveva chiesto lui in tono speranzoso.
Arden gli aveva spianato la strada, ma alla fine l’idea era stata sua.
Mi ero avvicinata al portatile sul tavolo della cucina e mi ero chinata per sorridere a mia figlia, che aveva i lunghi capelli biondi dietro le orecchie e un’espressione seria negli occhi verdi. Scusa, tesoro, le avevo detto. Devo andare al ristorante. Ci sentiamo più tardi? Ero già in ritardo e il traffico a Washington è implacabile. Fino a qualche tempo prima Gabrielle veniva a tenere compagnia ai bambini finché Theo non tornava a casa, ma adesso non più. Arden c’era rimasta male, ma aveva annuito. Ti chiamo domani, mamma.
Cioè ieri. Ma non ha più chiamato. Le spiegazioni possono essere migliaia: è uscita coi nuovi amici, si è messa a studiare e le è passato di mente... Se ripenso alla sua esitazione, però, mi chiedo se non le sia successo qualcosa.
Mi chino e batto la mano sulla cuccia; Percy arriva trotterellando. «Fa’ il bravo», gli raccomando, accarezzandogli le orecchie. «Tieni d’occhio gli scoiattoli.»
Durante il giorno Percy esce dalla porticina basculante e spesso quando torno a casa lo trovo che sonnecchia al sole. Nel sentirmi arrivare scodinzola, ma non si alza. Ora fa un giro nella cuccia e poi si accascia sospirando.
«Vuoi che lo porti io?» chiede Theo a Oliver. Capisco che ha paura che le formiche gli invadano la macchina.
Oliver fa di no con la testa e oltrepassa il fratello per uscire nel vialetto, dove la nostra Volvo arrugginisce accanto alla Honda di quarta mano.
«Ti ricordi quella volta che Arden ti ha rubato il diaframma?» mi sussurra Theo nell’orecchio.
Scoppio a ridere, ma all’epoca c’ero rimasta malissimo quando la maestra mi aveva telefonato per informarmi dell’oggetto su cui Arden aveva pensato bene di fare la presentazione ai suoi compagni. Theo invece aveva scosso la testa pensoso. Teniamola d’occhio, chissà cosa combinerà da grande.
Be’, io l’ho tenuta d’occhio, no?
Theo mi abbraccia. «Hai ragione, amore mio. Avrei dovuto pensarci per tempo, a stasera. È solo che non credevo volessi chissà quali festeggiamenti.»
«Non possiamo permetterceli.»
«Uno piccolo piccolo però sì, non credi?»
Sospiro e mi appoggio a lui. «Tipo?»
«Andiamo al cinema? Ho visto che ci sono bei film in programmazione.»
Non andiamo al cinema da un secolo. I biglietti costano, il tempo manca. Mi autoconvinco che mi farebbe piacere e, di colpo, mi accorgo che mi farebbe davvero piacere. Ho voglia di sedermi nel buio di una sala accanto a mio marito con un secchiello di popcorn dal profumo delizioso in grembo, dimenticare per un po’ il ristorante che va male, le bollette che si accumulano, mia figlia che è cresciuta ed è andata via di casa. Gli sorrido. «Chiedo a mia madre se può farci da babysitter.»
Theo mi bacia sulla bocca. È un bacio leggero, ma mi mette i brividi. Poi prende la ventiquattrore. «Vedrai che Arden chiamerà. Non stare in ansia.»
Lo guardo andare via. Diciannove anni.