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I tre brevi monologhi della scrittrice italo-sudafricana Valentina Acava Mmka, contenuti nel libretto Io… Donna… Immigrata… Volere Dire Scrivere, pubblicato dalla Emi sono leggibili a diversi livelli. La questione dell’identità incerta dello straniero, innanzitutto. “Spaesamento, sradicamento, paura, nostalgia, costituiscono il bagaglio principale di un immigrato che – scrive l’autrice nella postfazione – si trova catapultato in una dimensione spaziale che non è la sua”. La perdita delle relazioni con la propria origine, e quindi con la propria identità originaria, affievolisce nel migrante la consapevolezza e la memoria di sé e lo rende incapace di trovare il proprio posto nel mondo. Nelle tre pieces, infatti, diventa determinante il legame che le tre donne riescono a mantenere con la terra madre e con la propria memoria, ché solo riconoscendosi, riconoscendo i propri desideri, è possibile vivere la dimensione positiva della condizione di errante, di chi ha la fortuna di scoprire nel diverso un’opportunità di scambio e di crescita.
IL MANIFESTO 12 Maggio 2004 di Orsola Casagrande Volere, dire, scrivere, la vita in transito «Io... Donna... Immigrata», monologo a tre voci femminili di Valentina Acava Mmaka Straniere Un testo scritto per il teatro, e ora pubblicato dalla Emi, che illumina la complessità emotiva di chi vive in bilico tra due mondi. «Scrivo per ricordare da dove vengo. Scrivo per non dimenticare cosa voglio». E' sintetizzabile in queste due frasi il messaggio del libro di Valentina Acava Mmaka. Un testo teatrale, Io... Donna... Immigrata (Emi, pp. 64, 5 euro) che comprende i monologhi di tre voci femminili, tre donne immigrate, Drasla, Alina e Farida che raccontano la loro storia interrogandosi sul loro passato, sul loro presente e sul loro futuro. Si interrogano sulla loro identità, sui modi per riuscire a mantenere questa identità in un paese straniero, «questa terra di lusso dove tutti sono amici fino a quando non sentono l'accento zoppo nella mia voce e allora mi guardano con sospetto», come riflette Drasla che ha lasciato l'Albania per venire in Italia a fare la parrucchiera ma si ritrova a fare la prostituta. Lei che voleva lavorare per aiutare il marito a costruire una casa per loro e i loro figli. Drasla rappresenta il «volere» nel testo di Mmaka. Voleva un futuro migliore. Voleva un sogno che si è rivelato un incubo. Dal quale Drasla ora vuole scappare. Infatti vive nell'attesa del ritorno in Albania. Alina, invece, fa la badante a una vecchia signora. Anche lei ha lasciato il suo paese con la consapevolezza di voler tornare. Alina rappresenta il «dire». Una donna sudamericana che continua a ripetere, quasi fosse una poesia (oppure un lamento) poche parole, «signora grazie, sì signora, signora prego». Nell'intimità della sua stanza Alina pensa ai figli, ai soldi che guadagnerà in questo paese dove è soltanto di passaggio. Alina, come Drasla, vive in funzione del ritorno. Farida invece, in questo monologo a tre voci, è lo «scrivere». E' lei che più si interroga sul suo essere donna, sulla sua identità....
LEGGERE DONNA Novembre-Dicembre 2004 di Adriana Lorenzi E' un piccolo gioiello, il libro di Valentina Acava Mmaka, un capolavoro di cesellatura di un'artista che ha curato ogni parte del suo testo: le sue pagine, quelle di prefazione a firma di Jarmila Ockayovà, quelle di introduzione di Clotilde Barbarulli e, per concludere, quelle della sua postfazione. E se ho affiancato al sostantivo "gioiello" l'aggettivo"piccolo" è soltanto per le dimensioni del libro - un "librino" per dirla con l'amica Clotilde Barbarulli - che ancora di più ne garantiscono la preziosità: non è negli scrigni più piccoli che si conservano i tesori di maggior valore? L'opera è stata pensata per il palcoscenico dove compaiono tre donne straniere, tre immigrate a pronunciare il loro monologo: l'albanese Drasla, la filippina Alina, l'araba Farida, ovvero il volere, il dire e lo scrivere. Le loro voci vogliono farsi ascoltare, non con prepotenza ma con forza, in una ricerca d'identità, di affermazione di un sé che viene da lontano. Cariche di passato cercano strategie di resistenza e di sopravvivenza dentro il nuovo presente fatto di diverse abitudini e, soprattutto, alfabeti sconosciuti e, inizialmente ostici. Dal buio, dal vuoto arrivano le voci con le loro ripetizioni, ritornelli e rimi, perché dal pozzo della sofferenza, della perdita di identità devono cominciare ad articolare qualcosa per riuscire ad appigliarsi alla corda quale unica occasione di risalita dal pozzo. E allora le loro parole diventano corpi che si stagliano sul palcoscenico non come ingombro ma come figure a tutto tondo che sanno declinare la nostalgia, lo spaesamento, la rabbia, i sogni e i desideri in modo che non significhino solo per loro ma per chiunque le ascolti, che non valgano solo per i soggetti immigrati, ma per chiunque cerchi di uscire dal caos della propria eccentricità, della propria incomunicabilità. [...]
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