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Malattia, Morte, Senso della Vita (e del romanzo)... Dio, Concetto di Infinito, Coscienza, Amore... Storia, Scienza, Avventura, Bellezza e Passione... Di che cos'altro dovrebbe trattare la Letteratura? Un capolavoro complesso e a tratti toccante, anche se volutamente di difficile lettura e a tratti un po' troppo compiaciuto (giudizio ovviamente del tutto personale). Ho letto libri che mi hanno toccato piu' direttamente al cuore, ma pochi che mi abbiano altrettanto stimolato l'Intelletto. Consigliato a chi non ha paura di affrontare questioni complesse in maniera complessa (uh, un "Ecoismo!") e a quelli, come me, che a volte si compiacciono nel "vedersi leggere". :-)
Libro pesantissimo da leggere, con un filo logico molto vacuo e facile da perdere. Le varie e lunghe elucubrazioni metafisiche, teologiche, psicologiche nonchè geografiche e spazio-temporali di cui trattano interi capitoli ne rendono ancora più difficile una lettura scorrevole.
L'ho letto e riletto e posso dedurre che questo libro non ha un senso logico: parla di un uomo frustrato che si trova in una nave deserta davanti ad un'isola artificiale..questa è la sola cosa che ho capito.. infine la forma scritta è del tutto incomprensibile...
Recensioni
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recensione di Ceserani, R., L'Indice 1994, n.11
Il nuovo, smisurato romanzo di Umberto Eco va immediatamente ad arricchire la bibliografia di Hans Ulrich su quelle che Karl Marx chiamava le 'Robinsonaden', cioè le storie (e le variazioni di storie) che hanno come tema la sopravvivenza di un essere umano dopo un naufragio e le sue capacità di convivere con la propria solitudine, le proprie memorie, sogni, allucinazioni, il proprio patrimonio di conoscenze e abilità pratiche, di adattarsi a un ambiente naturale diverso ed esotico e di misurarsi con lo straordinario 'Dasein' di un'isola misteriosa. Di 'Robinsonaden'ce ne furono già prima dello stesso "Robinson* di Defoe, da quelle della novellistica, della favolistica e dei romanzi antichi d'avventura alle cronache e diari dei marinai dell'epoca delle scoperte, come lo scozzese Alexander Selkirk o il francese Denis Vairasse d'Allais o l'olandese Enrikk Smeek, alle tantissime variazioni successive, romanzesche o cinematografiche fino alle molte barzellette che appartengono a questo preciso sottogenere e compaiono regolarmente nella "Settimana enigmistica".
In quest'ultima variante di Umberto Eco, il naufrago, che si chiama Roberto combinando insieme la parte iniziale del nome di Robinson e quella finale del suo inventore e alter ego, sopravvive a lungo su una nave abbandonata e deserta, all'ancora davanti a un'isola, isola artificiale essa stessa che reduplica come in uno specchio l'isola naturale, mentre fra l'una isola e l'altra passa proprio la linea longitudinale del cambiamento di data, quella a noi tutti nota dal "Viaggio in 80 giorni" (di qui il titolo del romanzo)...
Mentre Michel Tournier, in "Venerdì o il limbo del Pacifico", ha spostato non solo l'ambientazione geografica ma anche quella temporale del suo rifacimento della storia di Robinson, collocandola nel Settecento di Bougainville e Diderot, Eco, che anche lui ha trasportato la sua robinsonata nell'Oceano Pacifico, l'ha spostata idealmente all'indietro nel tempo. Il suo Robinson, divenuto con uno scherzetto un po' facile sul nome, il monferrina Roberto Pozzo di San Patrizio, o Roberto de la Grive, non si trova ad agire sullo sfondo sociale e marinaresco della nuova borghesia mercantile, ma idealmente più indietro nel tempo, nel Seicento dell'Italia nobile, spagnolesca, gesuitica, scientificizzante e militaresca, sconvolta da una pestilenza che è la stessa dei "Promessi sposi" di Manzoni, o nel Seicento della Francia dei re assoluti e dei cardinali astuti e potenti, della ragion di stato, della gran retorica barocca e delle raffinatezze e vuotezze mondane delle "preziose".
Quella di Eco è un'abilissima, astutissima, filosoficamente ambiziosa "robinsonata", condita in salsa postmoderna (che può essere anche definita "neobarocca", se si presta ascolto alle teorie di un discepolo di Eco: Omar Calabrese). Il suo libro è una gran macchina narrativa e romanzesca, che vien fatta funzionare da un esperto di finzioni, da un interprete affezionato e gran lettore non solo di Defoe, ma ano che di Alexandre Dumas, Jules Verne e tanti altri creatori di perfette macchine romanzesche (dall'autore, insomma, di "Lector in fabula", delle lezioni harvardiane, ma anche dei non dimenticati studi sul romanzo popolare dell'Ottocento). Spostamenti e rovesciamenti di prospettive sono, in una macchina narrativa meravigliosa e neobarocca, all'ordine del giorno. Mentre Tournier costruisce la sua macchina snella e leggera attorno a un deciso scambio di ruoli fra Robinson e Venerdì e all'esplorazione tematica settecentesca del confronto con l'altro, della psicologia sensistica e della ricerca della natura e della felicità, Eco complica considerevolmente le cose, facendo anzitutto in modo che il suo naufrago non arrivi mai all'isola e si affidi alla fine a un viaggio mistico e dissolutorio nel mare, e poi sostituendo Venerdì con un bizzarro padre gesuita tedesco di nome Caspar, un po' gran sapiente naturalista un po' balengo manipolatore di impiastri e fattuccherie, sdoppiando il suo personaggio e affiancandogli un suo sosia-fratello, di nome Ferrante, che è al tempo stesso una proiezione allucinatoria, un'incarnazione della parte malvagia e perversa della sua natura (un Jekyll di lui come Hyde), un'invenzione narrativa che assume a un certo punto una vita romanzesca indipendente, e diviene personaggio di un controromanzo pensato da Roberto.
Di sdoppiamenti e reduplicazioni ce ne sono nel romanzo a bizzeffe. Come macchina neobarocca, come gran teatro del mondo, piazza delle meraviglie, museo e 'Wunderkammer', enciclopedia di tutte le scienze e pseudoscienze rinascimentali, il libro funziona; forse un po' meno funziona come macchina narrativa, anzi come tale, per volontà dello stesso narratore, deliberatamente si inceppa e, se mi si consente l'arguzia barocca, 'desinit in piscem' (nel senso che il povero Roberto finisce in pasto ai pesci). Alexandre Dumas cede frequentemente il posto a Van Loon e all'Enciclopedia dei ragazzi, spiazzando il lettore, alternando momenti di avvincente avventura con altri di divulgazione scientifica e altri ancora di esplorazione di alcuni importanti temi epistemologici e di filosofia esistenziale. Non mancano nel libro i capitoli narrativamente avvincenti, come quello fortemente robinsoniano della scoperta, che viene al culmine di una serie di segnali, indizi inquietanti e vere e proprie orme, dell'esistenza sulla nave di un altro essere umano, per l'appunto il padre Caspar. E neppure mancano le pagine di divertito 'pastiche', di svolazzo filosofico o naturalistico, di ragionamento dialettico o di trascrizione stupefatta di mostri e meraviglie della natura: particolarmente inventivi ed efficaci sono i capitoli sull'esplorazione della barriera corallina e sull'incontro con la Medusa o Pesce Pietra oppure sul pensiero delle Pietre (per esempio: "Che cosa sentirei se fossi davvero una pietra? Anzitutto il movimento degli atomi che mi compongono, ovvero lo stabile vibrare delle posizioni che le parti delle mie parti delle mie parti intrattengono tra loro. Sentirei il ronzare del mio pietrare. Ma non potrei dire "io", perché per dire "io" bisogna pure che ci siano degli altri, qualcosa d'altro a cui oppormi. In principio la pietra non può sapere che ci sia altri fuori di sé. Ronza, pietra se stessa pietrante, e ignora il resto. È un mondo. Un mondo che mondula da sola").
Se si prende "L'isola del giorno prima" come opera enciclopedica, essa diviene immediatamente un giardino di delizie per i cultori del romanzo erudito e accademico, che sembra poi genere assai fortunato nell'epoca postmoderna e neobarocca: la fitta trama dei rinvii intertestuali è un territorio privilegiato, e sarà contesissimo, per la grande industria accademica del commento e della ricerca di sottotetti, ipotesti e ipertesti, è una miniera di grandi meraviglie, un mare pescoso, pieno di perle ma anche di fondi di bottiglia, per un lessicologo e uno schedatore della scrittura barocca e neobarocca, è, per il comune lettore, un pronao sovrabbondante, che fiacca l'appetito e le capacità di digerire. Si tratta di un grande emporio, un romanzo-enciclopedia che si differenzia però dall'opera-enciclopedia o opera-mondo di cui parla Franco Moretti nel suo ultimo libro. Nessuna dimensione epica, nessuna grande sintesi modernistica, nessuna sacralità intrinseca. Qui c'è la risposta postmoderna alle ambizioni eroiche di Goethe, di Wagner, di Joyce, di Broch, condotta con spirito avventuroso e romanzesco, eruditissimo e disinvolto. L'unica cosa in comune è l'effetto, quello di cui parla Moretti: "un'opera molto lunga, e molto noiosa... una forma, diciamo così super-canonica - eppure quasi non letta".
Se si prende "L'isola del giorno prima" come romanzo di formazione, si può anche ridurne l'insegnamento finale a una morale in pillole assai semplice. Essa, se fosse chiamato a tirarla un giovane borghese immerso nell'empirismo inglese e nella morale puritana alla Defoe o un illuminista dialettico e problematico alla Tournier, sarebbe questa: non mettetevi in giro per il mondo, soprattutto se volete fare lo spione e carpire i segreti della misurazione della longitudine ai pazzi, millantatori o scienziati veri che stanno navigando nell'Oceano Pacifico proprio per quello scopo, senza prima avere imparato a nuotare. Se invece a tirarla fosse chiamato non un avventuriero dei mari ma piuttosto un giovane che aspira a coltivare la poesia, la scienza e l'oratoria e vuole ricevere la formazione di un perfetto intellettuale moderno, la morale sarebbe questa, sostanzialmente non molto diversa: ricordatevi dei precetti di Guarino e sin dai' primi anni dell'infanzia, all'inizio del vostro processo educativo, imparate a nuotare. Altrimenti sarete condannati al destino del povero Roberto, più fortunato di Robinson al momento del naufragio, ma. diversamente da lui incapace di nuotare.
Se si prende "L'isola del giorno prima" come gabinetto delle meraviglie della scrittura letteraria, non si può fare a meno, dopo avere ammirato i tanti esercizi di ingegno e di bravura, i tanti effetti ed effettacci di un 'wit' spesso ridotto a dimensione domestica, o semplicemente goliardica, rimarcarne anche alcune evidenti 'défaillances'. Lo stile neobarocco sembra aver perso, rispetto al suo grande modello, una dimensione essenziale, e cioè quelle della sonorità delle parole. Gli effetti visivi, gli anagrammi, le figure iconiche della cultura barocca vengono mantenuti e spinti semmai all'estremo, come è giusto che avvenga in libri che sono scritti e montati con l'ausilio della tastiera e dei comandi di taglio e di incollo dei moderni Pc. La grandiosa sonorità barocca, il continuo pedale d'organo, il contrappunto armonioso sembrano invece persi, nonostante le possibilità multimediali dello strumento. Nel discorso vengono infilati facili endecasillabi per cercare di tener su artificiosamente quella sonorità ("mai n'ebbe Olimpo pari ai suoi banchetti, soave ambrosia a me dall'imo ponto, il mostro a cui la morte non è vita"), la parodia delle voci umane cade nel grottesco (come avviene per il linguaggio tedeschizzante di padre Caspar). ogni tanto succede che lo stile barocco ceda il passo, quasi inconsapevolmente, al linguaggio ottocentesco, carducciano ("una vicenda di azioni convulse vissute in pieno sole, in modo che le rutilanti giornate dell'assedio, che la memoria gli restituiva, lo compensassero di quel suo pallido vagabondare"). Del resto qualcosa di simile succede anche sul piano della coerenza tematica: il grande scontro fra i due modelli secenteschi dell'amore come passione e dell'amore come libertinaggio ogni tanto tranquillamente vede fare la sua comparsa, anacronisticamente, il gran modello dell'amore romantico, con i suoi inevitabili risvolti melodrammatici. Il gabinetto delle meraviglie contiene anche reperti di dubbia provenienza e veri e propri falsi.
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