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Anno edizione: 2017
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Come quando si legge Moby Dick poi si saprà’ tutto sulle balene, dopo la lettura (impegnativa) di questo libro si saprà tutto sull’isola di Sachalin sia dal punto di vista geografico sia da quello del sistema carcerario vigente in quegli anni di fine secolo. Lavoro poderoso, ricco (anche troppo) di dati, statistiche, racconti dettagliati di singoli casi umani. Non ho capito cosa abbia portato Cechov ad impegnarsi in una simile opera, che deve averlo impegnato per un periodo non certo breve ed in condizioni ambientali estreme. Era già un autore di un certo successo (ho visto a teatro proprio di recente alcuni atti unici deliziosi scritti pochi anni prima) e non credo che, viste anche le pesanti critiche al sistema, ci fosse la corsa a volerglielo pubblicare. Comunque sono contenta di averlo letto. Ho scoperto dell’esistenza di questo libro solo perché lo cita Colin Thubron nel suo ultimo libro che racconta il viaggio lungo il fiume Amur.
Forse si potrebbe dire che non erano in tanti in grado di fare giornalismo di reportage alla fine dell'800, raccontando della vita nella katorga in quel "finis terrae" russo che sarebbe poi - a est - l'isola di Sachalin. Ma non basterebbe questo a spiegare un libro arido per scelta, asettico per impegno preciso di un autore che, quando dimentica di trattenersi, lascia intuire ben altre capacità evocative e di racconto. Il libro invece è proprio tutto così: interessante ma noioso (soprattutto nella seconda parte) come solo una tesi di laurea sa essere e appassionante come un trattato di sociologia, cioè praticamente zero. Da leggere per ben motivati e filologi appassionati.
Cent'anni prima di Terzani, ripercorrere le spirali del fiume Amur - che nonostante il nome evocativo ha ben poco di romantico -, e tornare a quelle latitudini rese ancora più estreme dalla ovvia arretratezza ottocentesca, è stato un viaggio piuttosto estenuante. Attraverso questo che si rivela essere, a tutti gli effetti, un vero e proprio saggio etnografico, geografico, medico/sanitario e sociologico dalle dissertazioni fin troppo scientifiche complete di cifre, statistiche, tabelle e sovrabbondanza di note stilate 'con uno zelo degno di un dottorando', sull'omonimo bagno penale, la 'katorga' - pensato sembra anche con lo scopo di una flebile funzione correzionale/riabilitativa ('promozione' da deportato a colono) -, si scopre un mondo altrimenti irraggiungibile; un'alterità a metà fra immagini da Terra Promessa e da girone infernale popolato da una martoriata umanità. Quest'isolona lunga quasi come l'Italia a novemila chilometri da Mosca ma ancora Russia, è un'isola di indigeni radicati dagli albori del tempo e di sradicati reietti dal sistema che si mischiano e si cannibalizzano ai confini del mondo; una terra a forma di pesce decapitato, tormentata dal gelo e dagli uomini, che offre però dimostrazioni di umano ingegno, istinto di sopravvivenza e capacità d'adattamento. La narrazione di Čechov sull'avvio zarista di una tradizione di tormenti - che proseguirà con l'orroroso dilagare dei gulag staliniani per culminare nei lager nazisti - è asciutta, lucida, quasi impersonale. È un osservatore così distaccato da sembrare un rigoroso funzionario incaricato a rendicontare, anche se non risparmia aspre critiche al sistema e alle condizioni che testimonia.È un grandissimo lavoro di ricerca e informazione, ma l'assenza di empatia, pathos e commozione si avverte troppo, e può lasciare perplessi e annoiati; davvero un'opera troppo poco letteraria, lunga, fredda e asettica.
Recensioni
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Nel 1895 Cechov pubblica il diario del suo viaggio, dall’aprile al dicembre del 1890, a Sachalin: Dalla Siberia all’isola Sachalin, questo il titolo. La grande isola artica, a Nord del Giappone, poco distante dal continente, controverso territorio assegnato alla Russia con i trattati del 1875, diventa una colonia penale nel 1869. Le pubbliche narrazioni di finalità – farne una colonia “agricola di correzione” – subito confliggono con la morfologia del luogo, la sua impraticabilità, il clima – “il luogo più piovoso di tutta la Russia”, “per 181 giorni l’anno è sottozero” – la sua improduttività e la banale quotidiana violenza. Il trentenne Cechov – nel suo bagaglio pistola e macchina fotografica – inizia a scrivere nel pieno della traversata siberiana. [...] La scrittura è brillante, la narrazione fitta di occasioni, di avvenimenti. Minimalista, certo, la pagina, ma nel freddo e nella neve sono vividi e quotidiani oggetti, animali, fisionomie, il suono delle catene della colonna di detenuti in movimento, animosi e avventurosi gli incontri lungo la trafficata pista transiberiana [...]. Cechov riesce, una volta a Sachalin a visitare izbe e nuclei urbani, flora e fauna, consistenti rappresentanze della popolazione autoctona e sottoposti alla pena nei vari stadi: detenuti – in catene e senza catene –, coloni, proprietari di terre assegnate, contadini e in né uomini liberi. Rari i percorsi a esito felice: su cinque detenuti tre hanno tentato di evadere, due direttori, Selivanov e Derbin, particolarmente crudeli, sono stati uccisi dai detenuti. Impiccagioni, frusta e bastone dominano la scena. Omicidi continui – di detenuti, guardie, di giljaki e ainu i miti nativi – sconvolgenti per “insensatezza e crudeltà”, cimici e parassiti ovunque, gioco d’azzardo del faraone che segna e cancella il tempo dell’inedia e della nostalgia, corruzione e prostituzione delle donne libere e detenute, di mogli e glie, la sifilide o “mal giapponese”. Tuttavia non è questo un libro sulla katorga, un capitolo di letteratura carceraria comparabile – come si è fatto – alle Memorie del sottosuolo o ai Racconti di Kolyma o a Una voce dal coro. Sono piuttosto le pagine di una corposa inchiesta sociosanitaria – medico Cechov lo è –, capitoli di un antropologo, di un appassionato di ora e fauna ed esperto di pesca. Una distanza c’è sempre, anche dove, come negli ultimi capitoli, si libera la narrazione più pertinente al concentrazionario.
Recensione di Piero Del Giudice.
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