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La città italiana del medioevo è un tema assolutamente evergreen della storiografia europea. Anche le prospettive comparative più tradizionali (città italiane / città fiamminghe; comuni italiani / poleis antiche) mantengono al riguardo un'inossidabile vitalità. E quanto alle singole storiografie nazionali (o di area linguistica), è interessante vedere come esse si rapportano, oggi, a questo grande tema. Mentre la Spagna (a lungo ripiegata su se stessa) è del tutto assente, constatiamo così che la storiografia tedesca (che negli ultimi trent'anni ha dato contributi inestimabili alla ricerca sui comuni italiani: basti pensare a Keller e alla sua scuola) ha faticato a staccarsi dal rapporto con le grandi istituzioni (la chiesa, l'impero) e anche se le eccezioni non sono mancate (Modena, Milano) di rado affronta in modo esclusivo lo studio monografico di una città italiana. Questo genere letterario è stato invece correntemente praticato dalla storiografia anglosassone, ma con una prevalente connotazione rinascimentistica e un focus specifico su Venezia e Firenze. Negli ultimi anni la situazione si è modificata, ma nella seconda metà del Novecento inglesi e americani raramente hanno affrontato ex professo, mediante case-studies, l'Italia comunale.
E la Francia? Complessivamente, l'attrattiva della Renaissance è stata alquanto minore; e lo "scambio ineguale" tra le due storiografie (ché ben pochi italiani studiano la storia francese) ha portato a un approccio più confidenziale e "globale": a privilegiare, piuttosto che la dimensione della città-stato, una città nel suo insieme (anche se ovviamente il "politico" è ben presente). Moltissime monografie dunque: Pierre Racine su Piacenza, Gérard Rippe su Padova, Jean-Claude Hocquet e poi Elisabeth Crouzet-Pavan su Venezia, Odile Redon su Siena, Michel Balard su Genova e l'Oriente, lo stesso Ménant (ma in un approccio di storia regionale e territoriale) per Cremona Brescia e Bergamo. La straordinaria ricchezza delle fonti italiane ha poi permesso anche indagini più mirate (ad esempio, le ricerche di Boucheron sulla politica edilizia milanese). Per giunta, le risorse e l'attitudine organizzativa dell'École française de Rome hanno supplito al disordine e all'individualismo italiani, anche nella storia delle città comunali, come prova la gigantesca e più che decennale ricerca sui podestà dell'Italia comunale portata a termine qualche tempo fa da Maire Vigueur.
Queste considerazioni generali riducono lo spazio per parlare, qui, del volume di François Menant sull'Italia dei comuni (1100-1350), ora tradotto in italiano. Riducono lo spazio, ma consentono di valorizzare meglio il significato complessivo dell'operazione (visto che una minuta valutazione storiografica sulle singole questioni che Menant discute sarebbe in questa sede fuori luogo). Le circostanze stesse dell'edizione originale sono oltretutto eloquenti: tra 2004 e 2006, il tema dell'agrégation in storia (l'abilitazione all'insegnamento) fu in Francia Les villes d'Italie du milieu du XIIe au milieu du XIVe siècle; una scelta del tutto improponibile, a parti invertite, in Italia (proviamo a immaginare un'abilitazione avente come tema, che so, "La Francia da Filippo Augusto a Luigi XII"). Questo testo nasce dunque come un manuale (e non è il solo, giacché ne uscirono in quegli anni, per quella occasione, almeno altri tre: di Patrick Gilli, di Patrick Boucheron, di Ilaria Taddei e Franco Franceschi). E del manuale, questo testo di Menant ha tutta la chiarezza espositiva, la nitidezza di partizione interna, la ricchezza di apparati cartografici.
Ciò detto, numerose scelte dell'autore sono degne del più grande apprezzamento. Mi limiterò a segnalarne un paio. La prima è il depotenziamento ideologico della contrapposizione tra comune e signoria, un dato che la storiografia ha ormai assimilato definitivamente. In un volume intitolato L'Italia dei comuni, si parla tranquillamente di signorie cittadine e di governi monocratici, perché quel che prevale (giustamente prevale) è la "dimensione città", piuttosto che la formale distinzione fra regimi che in molte città si alternano e sfumano l'uno nell'altro. La seconda opzione va anch'essa nella direzione del contenimento del "politico". Solo i primi quattro capitoli (su dodici; non più un terzo del volume) si occupano di consoli, di podestà, di statuti, di regimi signorili. Largo spazio hanno l'economia (anche quella "internazionale"), ovviamente la politica dell'urbanistica e, in modo particolare, i temi della cultura, dell'immagine, della propaganda; e, anzi, si sarebbe desiderato qualcosa di più riguardo alla committenza artistica e alle arti visive in genere.
Dunque, in conclusione, un bilancio storiografico aggiornatissimo ed equilibrato, e anche un ottimo strumento didattico. Certo, un "manuale": ma l'accademia italiana (che relega i "manuali" nei gradini bassi o bassissimi della valutazione dei prodotti della ricerca) anche in questo ha qualcosa da imparare dai cugini francesi.
Gian Maria Varanini
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