In questo nuovo, bel libro Stefano Gasparri si propone anzitutto di smontare l'immagine che, al di fuori delle ristrette cerchie di specialisti, ancora si ha delle vicende che portarono alla discesa dei Longobardi in Italia e alla formazione del loro dominio territoriale. Stando a quello che l'autore definisce come il sentire storico diffuso, che prende corpo in ricostruzioni manualistiche ancora circolanti, i Longobardi sarebbero stati un popolo selvaggio e completamente estraneo alla cultura romana e cattolica dell'Italia. Abbandonate le foreste della Germania, essi avrebbero invaso la penisola impiantando una dominazione basata sulle armi; sull'ostilità retrograda verso ogni forma di cultura romana e papale; sulla separazione netta e rigida tra invasori e società locali. Dopo circa due secoli di supremazia rozza e violenta, nel 774 essi sarebbero stati vinti dai Franchi che, scesi in Italia in soccorso del papato e della cristianità, li avrebbero fatti scomparire per sempre dalla storia d'Italia. Tali ricostruzioni fanno presa sul grande pubblico anzitutto perché organizzano gli avvenimenti in una narrazione ordinata e priva di quei vuoti cui solo gli specialisti sanno rassegnarsi. Inoltre, rendono più lineare e comprensibile il passato altomedievale dell'Italia perché lo appiattiscono sull'impermeabile (e falsa) contrapposizione tra cultura romano-cristiana (raffinata e quindi italiana) ed elementi germanico-pagani (primitivi e quindi alieni). Una volta sgombrato il campo da queste descrizioni tanto rassicuranti quanto equivoche nella loro coerenza, a molte delle domande che gli storici si pongono sulle origini e sulle prime fasi dell'esperienza politica longobarda, le risposte ‒ Gasparri lo scrive senza mezzi termini ‒ non possono in realtà che essere incerte e imprecise. Le fonti a nostra disposizione per i secoli VI e VII risultano essere, infatti, scarse, vaghe e, tutto sommato, deludenti. Anche una fonte preziosa e ricca come l'editto di Rotari (643) mostra, in quest'ottica, limiti significativi. In quanto immagine coeva del mondo italico alla metà del VII secolo, esso ci consente infatti di cogliere con forza quanto quel mondo avesse per molti versi reinterpretato, senza rifiutarla ciecamente, quell'eredità tardo romana che era rimasta ancora dominante almeno fino alla fine del VI secolo. D'altro canto, tuttavia, l'editto tace del tutto su aspetti città e vita cittadina in primo luogo, ma anche la dimensione religiosa che dovevano essere centrali nella società longobarda e la cui conoscenza sarebbe dunque essenziale per qualsiasi tentativo di ricostruzione della vita del tempo. Nonostante tutto, Gasparri riesce a ricomporre con destrezza il poco che resta in un quadro che, nella sua ineluttabile nebulosità, ci lascia intravedere almeno le radici di dinamiche che giunsero a piena maturazione nel secolo VIII. Così, ad esempio, il mondo longobardo del secolo VII ci appare come una società i cui quadri fondamentali erano sì ancora instabili e in via di definizione, ma nella quale le basi del potere pubblico erano ormai completamente fondate sul possesso e lo sfruttamento della terra. Nello stesso tempo, l'importanza del lignaggio (fara), la marginalità e la subordinazione delle donne, la funzione di controllo del potere regio attribuito all'assemblea dei liberi in armi emergono come ulteriori, qualificanti elementi di trasformazione in senso barbarico (termine da non intendere ovviamente in senso negativo) rispetto al passato. Le fonti a nostra disposizione diventano più consistenti per numero e più varie per tipologia con il secolo VIII. La fisionomia della società longobarda diviene allora un poco più chiara, almeno nelle sue linee generali. Lungi dall'essere semplicemente rozzi guerrieri, i sovrani esercitavano quelle che Gasparri identifica come attività fondanti del potere regio: promulgazione di leggi, amministrazione della giustizia, riscossione di donativi e multe, mobilitazione dell'esercito. La struttura pubblica era articolata in ducati e gastaldati, divenuti circoscrizioni di varia ampiezza di solito incentrate su una città. Nella capitale, Pavia, attorno alla persona del sovrano si era intanto venuta formando una corte che intravediamo come sofisticata e complessa. Anche l'aristocrazia comincia allora ad apparire meno sfocata come gruppo sociale. Gli esponenti di spicco della società longobarda, sia pure meno ricchi dei loro omologhi d'oltralpe, traevano forza e prestigio dalla contiguità con i sovrani i quali, come avveniva in area franca, usavano il dono come strumento per raccordarli a sé. I grandi proprietari del regno, molto spesso residenti in città, sembrano inoltre avere avuto possedimenti sparsi in aree piuttosto vaste e, il più delle volte, li organizzavano attorno a fondazioni religiose di famiglia (chiese e monasteri) che fungevano da centri di radicamento e controllo territoriale. Gasparri rileva, come elemento distintivo e qualificante degli aristocratici longobardi, il fatto che essi basassero la loro ricchezza non solo sulla terra, ma anche sul possesso di cospicue quantità di denaro. Questo libro presenta anche una visione nuova dei rapporti tra Longobardi e papato. Rifiutata l'idea, ancora corrente, di una persistente ostilità del regno longobardo rispetto alla chiesa di Roma, frutto di una presunta fisiologica estraneità culturale, Gasparri sottolinea che i sovrani longobardi non mancarono mai di riconoscere l'autorità religiosa dei pontefici. Egli ricostruisce quindi con chiarezza il gioco politico che coinvolse l'Italia nella prima metà del secolo VIII, quella che può essere definita l'età d'oro del regno longobardo. L'autore non limita tuttavia la propria analisi al momento di maggiore auge del regno ma, al contrario, è interessato a cogliere le dinamiche che portarono, con l'ingresso sulla scena dei Franchi, alla caduta del regno nel 774. La conquista dell'Italia longobarda fu, per i Franchi, un fatto ben diverso dalla conquista di regioni come Baviera, Turingia, Sassonia. Questo perché si trattava di un'entità che era, a un tempo, molto simile nelle sue strutture portanti al regno franco ed estranea all'orbita politica carolingia. Da ciò discese una certa difficoltà, da parte franca, a considerare e narrare la conquista come un vero e proprio spartiacque. Nello stesso tempo, riguardo agli eventi del 774, la voce dei Longobardi sconfitti non fu in grado di lasciare di sé altro che una flebilissima memoria locale. Fu allora la retorica papale a prendere il sopravvento nel corso del secolo IX, e a trasformare, con fini di propaganda politica, quei sovrani legislatori in un manipolo di violenti invasori che avevano sottratto l'Italia alla pace garantita dalla tradizione cristiana e romana. Gasparri non nega che, nelle prime fasi dell'insediamento all'indomani della discesa, la presenza longobarda in Italia abbia potuto avere, nei riguardi delle popolazioni locali, caratteri di violenza e contrapposizione: si trattò pur sempre di una conquista. Egli tuttavia sottolinea che considerare i Longobardi come un elemento alieno alla storia d'Italia, il cui corso naturale (romano-cristiano) sarebbe stato solo temporaneamente deviato dalla loro breve e violenta vicenda, poteva avere forse un senso, e aveva certamente uno scopo, nel clima emotivo e polemico dell'Ottocento risorgimentale, quando i Longobardi potevano essere considerati una sorta di precursori germanici degli invasori austriaci. È d'altronde proprio in quel contesto che le ricostruzioni manualistiche che ho menzionato all'inizio affondano le loro radici. Ma la più avveduta ricerca storica, che Gasparri rappresenta al meglio, ha ormai messo in luce come i popoli, tanto quelli altomedievali quanto quelli di oggi, non siano etnie di sangue immutabili nel tempo e nello spazio, ma gruppi sociali la cui definizione avviene mediante la costruzione dello spazio politico. In questo senso i Longobardi sono parte integrante della storia politica e culturale d'Italia. Avercelo ricordato con tanto acume ed eleganza è uno dei grandi meriti di questo libro. Antonio Sennis
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