Che cos'è esattamente una cantata? Un'aria solistica caratterizzata da interruzioni e cambiamenti interni, oppure un brano corale articolato in maniera complessa? Una composizione di carattere profano, oppure una pagina meditativa, basata su testo biblico, quasi un oratorio in miniatura? Una pagina destinata a esecuzioni cameristiche raffinate, oppure, proprio per il suo carattere privato e introspettivo, un genere portato agli esperimenti, a confinare con opera, oratorio, musica strumentale, mottetto, senza potersi riconoscere pienamente in nessuno di questi? Difficile dirlo: certo, però, la cosiddetta cantata nasce in Italia fianco a fianco con l'aria (quante raccolte sono intitolate Cantate et arie), si ritaglia uno spazio significativo dove l'opera non può attecchire, primariamente a Roma, e intuisce immediatamente la fecondità dell'intreccio fra le forme strumentali ormai avviate a fiorente sviluppo e una vocalità che trova sempre più gusto nell'esplorare testi raffinati della poesia del tempo. Questi spunti, fondamentali nel Seicento romano, finirono tuttavia per soccombere quasi del tutto di fronte alla diffusione esuberante dell'opera; salvandosi invece e mutando in parte i connotati grazie a un fortunato trapianto in terra tedesca, dove divennero parte integrante della liturgia luterana, che metteva al suo centro non l'Ordinarium Missae come nei paesi cattolici (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus Dei), bensì il Vangelo del giorno, che diventava così il fulcro stesso della cantata, ormai ripensata decisamente in termini sacri e costruita in modo tale da aderire in profondità agli addentellati del testo, scavando nelle sue radici spirituali e teologiche. Queste ragioni interiori della cantata sacra luterana sono esplorate e discusse nel poderoso volume monografico di Raffaele Mellace, nato sulle orme di un progetto ammirevole della milanese Società del Quartetto, che in dieci anni, dal 1994 al 2004, aveva inserito nella propria stagione l'esecuzione integrale delle cantate di Johann Sebastian Bach: traguardo insuperato del genere, rideclinato nei circa duecento titoli giunti fino a noi (per incredibile che possa sembrare, questi capolavori erano musica di consumo, destinata a scomparire con l'uscita di scena dell'autore). Non ci sono precedenti italiani di un lavoro critico di queste proporzioni, erede del bellissimo studio di Alfred Dürr ma con una sua personalità autonoma, che mette il suo baricentro nell'individuare la corrispondenza fra i presupposti del testo e le scelte musicali. Mellace tiene presente una mole di letteratura impressionante, dai lavori pionieristici di Arnold Schering e Albert Schweitzer fino alle indagini più moderne di Max Petzoldt, Christoph Wolff e del bolognese Pellegrino Santucci, per citare solo alcuni nomi. Le cantate di Bach affiancano grandiosi cori polifonici, semplici corali, arie, recitativi, duetti, con una tale varietà di forme, andamenti, colori strumentali, trattamento vocale da lasciare l'ascoltatore persino sconcertato; Mellace lo prende per mano, chiarendo le ragioni espressive delle singole scelte. Qualche esempio: la Cantata BWV 123 si apre con un coro grandioso, tutto maschile, e ricorre prevalentemente a voci scure per meglio evidenziare la centralità del Cristo nella liturgia del giorno, che è l'Epifania; il momento umano e drammatico interviene nella prima aria, che rappresenta l'anelito umano a Dio, e in cui, mentre si evoca l'infuriare (toben, in tedesco) della tempesta, la voce infuria a sua volta sulla "o" di toben martellandola con una sfuriata di novanta note; mentre nel corale conclusivo ogni furia si smorza in un insolito congedo ripetuto come un'eco, che pare anticipare le attenuazioni di Brahms, quando la morte gli appare come un riposo, come un ultimo dono della vita. Nella Cantata BWV 125 i confini di recitativo, arioso e aria sembrano più che mai elastici e sfumati, ogni modulazione trae le sue ragioni dal testo, il dialogo dei flauti sembra un duetto vocale, mentre la voce solistica si comporta come uno strumento. E via via Mellace individua la parola chiave di ogni brano, il suo concetto cardine, e ne suggerisce il corrispettivo musicale: tenebre e luce, speranze e timore, morte e vita si specchiano spesso in alternanze timbriche e vocali; lunghi pedali gravi o linearità armonica sono il basamento sonoro che illustra la fede, l'eternità, la pace interiore; dentro queste figurazioni, che traducono in armonia delle sfere i concetti teologici e le speranze interiori, si agita tutto un mondo di errori, dubbi, sviamenti che l'umile saldezza del corale mitiga e consola. Mellace esplora via via questa costellazione, non senza averle premesso un affresco introduttivo che fissa i dati salienti del periodo, anticipa i profili degli autori che fornirono i testi a Bach per quanto concerne i testi poetici, definisce i lineamenti del genere "cantata": di cui, naturalmente, esamina anche la più limitata produzione profana: il risultato è un vero breviario, utile e anzi indispensabile a professionisti e appassionati. Elisabetta Fava
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