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Sono contrassegnate da un clima particolare, le storie che racconta Consolata Lanza: un clima di fascino allusivo che si sprigiona da quelli che si potrebbero definire i "non luoghi" delle vicende. Già, perché questa scrittrice torinese capace di delineare figure femminili di grande intensità - come l'Irene protagonista del romanzo Irene a mosaico (Avagliano, 2000) e ora la Giovanna e la Freya protagoniste del racconto più bello di questa raccolta - ama stabilire sottili profonde relazioni tra l'interiorità delle sue creature e microcosmi sospesi tra il sogno e la realtà, come quell'accogliente cantina situata al livello del fiume in cui ama rifugiarsi Irene, come quelle anonime ma luminose stanze d'appartamento care a Giovanna, o come quei paesetti che sembrerebbero radicati in una solida e terragna geografia di pianure e campi di meliga, e invece sono come l'isola che non c'è. Un nome per tutti: Bolzaretto Superiore, un paesetto che è già comparso nei due avventurosi racconti di Est di Cipango (Filema, 1998) e nell'estrosa trama di Ragazza brutta, ragazza bella (Filema, 2000) e che ritorna, nobile miraggio a dispetto della sua dimessa configurazione fonetica, nel primo racconto di questo libro Bona e il partigiano : da lì viene, infatti, il giovane partigiano Demetrio che la solitaria Bona ospita nel suo maniero perduto tra i boschi.
Ma anche gli altri luoghi del racconto che gravitano intorno alla realtà di Torino, come la frazione di Castermà e Pianperduto, sono non luoghi allusivi, a somiglianza di quelli delle favole, dove faticosamente s'impara ad aprirsi o riaprirsi alla vita. Così Bona, trentasettenne scampata ai disastri della guerra che non si aspetta più niente dalla vita, per opera di Demetrio, partigiano con la passione per la pittura, vede riaffiorare sotto la tappezzeria dell'austero salone gli affreschi dipinti da uno sconosciuto antenato: affreschi densi di colore, gremiti di figure vivacissime. Parallelamente, in trasparente analogia, riscopre il colore dentro di sé, il dimenticato sapore della condivisione: in una parola, della vita.
Così il paesetto che fa da sfondo all'iniziazione amorosa raccontata in La lametta nel miele non ha neppure bisogno di un nome: perché è un luogo tutto interiore, finalizzato a risarcire dello strazio della guerra il protagonista, con il suo clima protetto e come sospeso, con un amore tutto da scoprire, con la fragranza di pane, garanzia di quotidianità.
Perfino nella storia più realistica del libro, Freya , che è ambientata a Roma, si assiste a un radicale processo di riscrittura della città: vengono consapevolmente elusi i suoi tratti più noti per delineare una mappa tutta interna e segreta, affidata all'impercettibile trama dei sampietrini più che al clamore dei monumenti, ai particolari di giardini e balconi - belli ma anonimi - piuttosto che alla riconoscibilità di piazze e quartieri. Inaspettatamente la convulsa Roma dei nostri giorni si trasforma in un luogo simile alla radura delle favole dove più volte, per caso o volontà, s'intrecciano i tragitti di Giovanna, che in conseguenza di un trauma giovanile ha fatto il vuoto dentro di sé, e Freya, donna capace di abitare contemporaneamente in mille luoghi e di riempirli della sua fame di emozioni, fino a farli straripare. Va da sé che in questo complesso e contrastante gioco di relazioni è Giovanna quella destinata al cambiamento, perché la fame di vita e di emozioni è contagiosa: quella stanzetta spoglia e asettica che è la sua interiorità si riempirà prima di fastidio e d'insofferenza, ma poi anche di emozioni, di slanci, di quel tepore frutto di quotidiana convivenza che è capace di cogliere a tradimento anche le persone più diffidenti.
Così Giovanna, che nel suo non luogo interiore ha dormito per lunghi anni di un sonno tenace e profondo, sordo a ogni richiamo del mondo - l'amore, la violenza, le passioni, il fragore delle guerre - si ridesta alla vita: ma nel pieno rispetto di una favola contemporanea, l'autrice non garantisce il lieto fine.
Maria Vittoria Vittori
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