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Io non ho ancora letto il libro, l'ho regalato a mia cognata e me lo farò prestare, non entro quindi nel merito, ma Il Gattopardo non è ambientato a Lampedusa! E' Giuseppe Tomasi, l'autore, che è "di Lampedusa"
Questo pamphlet, scritto su commissione per un festival turistico, in francese si presentava con tutt'altro titolo (Á ce stade de la nuit): titolo senz'altro più indovinato di quello scelto dalle edizioni Feltrinelli. Sì, perché il nome dell'isola - che subito richiama emotivamente il lettore alla tragedia degli sbarchi dei migranti - e l'immagine del mare in copertina, in realtà c'entrano poco con il contenuto del testo, tutto ruotante intorno alle fantasie notturne (letterarie, visionarie e geografiche) dell'autrice. La quale, la notte del 3 ottobre 2013, mentre da sola sorbisce una caffè in cucina, rimane colpita dalla notizia radiofonica dell'affondamento di un barcone a due chilometri dall'isola siciliana, e dalla conseguente morte di oltre trecento persone. La sua sensibilità intellettuale, tuttavia, più che alla strage di quegli innocenti, si rivolge subito al film "Il Gattopardo", ambientato appunto a Lampedusa, e al suo protagonista Burt Lancaster, dalla cui seduttiva immagine virile si trasferisce poi per analogia a un altro film, The swimmer, che condivide con la prima pellicola «lo stesso splendore del corpo» dell'attore. Di fantasia in fantasia, Kerangal, appena distratta dalla voce dello speaker che fornisce altri drammatici dettagli sul naufragio, si attarda a descrivere i propri viaggi, gli incontri, le letture, le riflessioni culturali e antropologiche, rimembranze giovanili, riservando alle ultime e scarne tre paginette finali qualche empatica considerazione sui disastri umanitari che hanno fatto di Lampedusa una martire mondiale della solidarietà umana. E se c'è qualcosa da aggiungere sullo stile di questo volumetto, forse è la tendenza comune a molta narrativa (e, ahinoi!, poesia) contemporanea di attardarsi in sterili elencazioni o classifiche di oggetti, azioni, toponimi, personaggi letterari o cinematografici, quasi a voler colmare vuoti di interesse nel lettore, o cali di ispirazione in chi scrive.
Recensioni
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È il 3 ottobre 2013, a pochi chilometri dalle coste di Lampedusa è affondato un barcone su cui viaggiavano dei migranti, soprattutto eritrei. Nei giorni successivi la conta dei morti arriverà a 366, a cui si aggiungono una ventina di dispersi.
A Lampedusa arriveranno i capi di Stato, il Papa e la solidarietà di un’opinione pubblica scossa dalle foto delle centinaia di bare disposte in fila nell’hangar dell’aeroporto dell’isola. Le pagine intense e liriche di Maylis de Kerangal ?sono la cronaca intima di quella notte.? La notizia che esplode nei media di tut?to il mondo e, parallelamente, la ricerca personale di un significato da dare? alla parola Lampedusa prima e dopo il naufragio. In una prova raffinatissima di Gonzo Journalism, questo libro è la storia di una ricezione, su come si racconta e come si elabora linguisticamente e moralmente una tragedia lontana, senza essere sul posto e ascoltando la radio in cucina.
Lo strumento principale per riappropriarsi di quella parola, Lampedusa, è il ricordo e l’associazione di idee lontane. Lampedusa, per la de Kerangal è il nome di uno scrittore, quel Giuseppe Tomasi che ha descritto un ballo della società nobiliare in decadenza come se fosse un naufragio. È poi l’occasione per ragionare sulla propria biografia, sulla prima volta che è arrivata a Stromboli “con in braccio un bambino, ad aspettare un uomo che mi aveva fatto una promessa, per parlare delle songlines di Chatwin e di quel mistero quotidiano che sono i toponimi. (…) Maylis de Kerangal fa una scelta apparentemente contraddittoria: raccontare l’emergenza con una cadenza lenta, quasi rarefatta.
In questo reportage dell’introiezione si crea un’aritmia tra il flusso, sottilmente divagante, in cui si accavallano i pensieri e il tempo lontano e affannoso delle ricerche in mare. Ci sono le notizie ascoltate in radio, che provano a ricucire il “qui” e l’”altrove” di questo libro. Mimano il ritmo della tragedia, ma non possono, in alcun modo, accorciare la distanza.
Ed è nella sfasatura tra questi due tempi che si può individuare lo scheletro morale del libro. Utilizzando un punto d’osservazione volutamente marginale, la de Kerangal trova uno strumento inadatto ma onesto per cercare un significato personale da contrapporre al significato mediatico di Lampedusa. E nello scontro tra i due si intravede, forse, un significato collettivo.
Recensione di Francesco Morgando
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