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Un fatto di cronaca che diventa romanzo, una storia di debolezze umane e di umane passioni che saldandosi chiudono il cerchio, serrando destini e spezzando esistenze, o segnandole irrimediabilmente; resoconto narrato di vite vissute tra stenti e miserie, di una fame antica e di un avverso destino tanto dissimulati con altera fierezza quanto di fatto ammantati di intima rassegnazione; atmosfere di un tempo che è stato, di un'epoca socialmente molto più lontana e distante dal presente di quanto lo sia per il tempo trascorso: un ambiente rurale, arcaico e asfittico, tanto meschino quanto spietato, dove la povertà è oggetto di scherno o di emarginazione …e la bellezza è una qualità demoniaca, bramata o invidiata, soprattutto per chi è un “fiore nato tra la merda”; un borgo antico, isolato e sospeso nella sua arretrata quotidianità, un borgo di provincia, della provincia molisana degli anni '60 in cui le protagoniste (è un romanzo al femminile!) si muovono come persone ultime tra gli ultimi, destinate come sono ad un riscatto sociale, se e quando verrà, o ad una fine liberatoria, disperata ed estrema, o a una maledizione eterna, meritata e consapevole. Romanzo scritto a quattro mani con maestria e sapiente misura; una prosa suadente, che coinvolge con il suo essere pittoricamente efficace nelle descrizioni e nelle immagini che vuole rappresentare, così come nell'introspezione caratteriale e psicologica dei personaggi e nella loro interazione. Una narrazione dal realismo verghiano, o anche propriamente neorealista, voluto o casuale che sia ma compiutamente riuscito. Di certo improntata ad un sentimento che sembra permeare l'intero racconto, infuso con sapiente perizia letteraria dalle due scrittrici: una pietas distaccata, algida e rarefatta per tutti i protagonisti di questa umana vicenda, che siano essi le vittime innocenti piuttosto che gli artefici dissennati degli eventi all’origine della loro stessa rovina. Un racconto che assurge a velo tenue e pietoso, [...]
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