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"In sei giorni Dio creò il cielo e la terra. Il settimo non creò nulla. Si limitò a compiacersi di quanto aveva realizzato. Quel giorno tuttavia ebbe origine un'altra creatura: il lecchino". Il parassita nel giorno del riposo, la flaccida bassezza destinata a scodinzolare e ad ungersi oltre i limiti di ogni sopportazione lungo il fraseggio mai sincero di ogni suo atto. "Il Signore lo collocò in un luogo dove non accadeva nulla, sicchè non poteva accadere nulla neanche al lecchino; tra i giureconsulti dei reali ministeri". E come lo plasma? Godiamoci queste sferzate di poesia: "Gli diede una pelle liscia e coriacea, come la miglior carta da minuta. E in luogo dell'anima gli infuse un clistere oleoso". Stupenda ascesa verso un ritratto unico, scintilla segreta a illuminare un dentro di rovine, frasi recitate ad arte dove ogni verità nasce tradita e si vive solo di riflessi servili, una vicenda personale già infettata ai primi albori. Ma c'è un livello di abilità del lecchino che pur sorprende, perché per quanto sia vero che egli abbia sempre "l'opinione dei suoi superiori", spesso può averla "ancor prima degli interessati". Ecco il gioco d'anticipo dove la sua maschera si intrufola intuendo gli odori da seguire, la strada da "battere", il farsi grandiosamente zerbino sotto le suole giuste, le più scelte. Le realtà dove quest'arte somma si concede sono infinite: cultura in primis, ateneo del lecchinismo spesso più elegante, celato gustosamente dietro maniere ben presentate; poi la politica, teatro dell'universale a figura intera, fino a giungere alla sommità nobilissima dei "lecchini della franchezza e della coerenza", girone sublime, dove la capriola, il fiuto e la forza d'adattamento salgono fra le spirali celesti più e meglio di un capolavoro di tatto e di stile. Ecco cos'è questa gemma rara; una bella boa maleodorante nel mare dell'apparente concordia, il simpatico dramma di una coscienza senza sorte propria, una vita in prestito, un povero delegato di se stesso.
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