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Dopo 53 anni la popolarità della Lettera dei ragazzi di Barbiana continua a crescere; arriva la traduzione in una lingua di quasi mezzo miliardo di persone. Una doppia bella notizia Traduzione che rispecchia la globalizzazione contemporanea. Curata da un docente di pedagogia all’università di Parma nato e cresciuto in Grecia, tradotta da un curdo siriano. Un intreccio di culture che avrebbe fatto piacere a don Milani. Don Milani ha sempre parlato un po’ arabo: ha spiazzato gli interlocutori sull’interpretazione del suo messaggio. Aveva solide basi culturali che mantenne sempre vive. L’esilio di Barbiana non lo isolò. Anzi, rese quella pieve sul monte Giovi polo di attrazione, stimolo per il mondo scientifico. Ma non ha lasciato una dottrina scritta. L’ha vissuta e comunicata con affermazioni spesso perentorie. Credeva nella forza dell’esperienza concreta. Ammoniva «Fate scuola! Non curatevi di chi vi dice “il Priore non avrebbe fatto così”». L’arabo è stata parte dell’esperienza di Barbiana. La Lettera afferma che «è solo la lingua che fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui» Francesco Gesualdi, uno dei ragazzi, studiò l’arabo ascoltando i dischi poi andò in Algeria: «non ero un figlio di papà: andavo a scuola di sera e lavoravo di giorno come fanno tutti quelli che non hanno alle spalle famiglie ricche. Ero un emigrato alla rovescia: dal Nord verso il Sud per incontrare gli sfruttati di altri paesi e insieme tessere la rete per un mondo migliore». Chi ama Barbiana condivide l’auspicio del curatore Argiropoulos «I care, mi interessa: io spero che questa traduzione araba generi interesse, per i contenuti e la centralità che la lingua, tutte le lingue, hanno nel pensiero pedagogico e azione civile e democratica di don Milani. Desidero e spero che questa Lettera sia letta con passione dalla gente di lingua madre araba ovunque si trovino»
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