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Quali incolmabili differenze fra i nostri tempi e quelli di Thomas More, fra il messaggio di speranza di Utopia e l'assenza di futuro cui ci stiamo abituando. Eppure, quante curiose somiglianze. Le lettere di questo pensatore coraggioso, statista a malincuore, cultore e martire della retta coscienza e perciò santo della chiesa cattolica ci descrivono una mentalità e un mondo ancora dipendenti dai testi, primi fra tutti quelli sacri – la Bibbia, "regina di tutto l'universo letterario" – che dominano la vita culturale come a noi non è nemmeno dato di immaginare. Ma i problemi da affrontare e risolvere allora non erano poi tanto distanti dai nostri (segno della costanza della natura umana e della storia, o di una nostra involuzione verso misconosciute origini?).
Ai suoi corrispondenti Moro parla di fedeltà filologica ai testi, di sacramenti, di dispute fra teologi e retori, di dialettica e logica, di problemi di traduzione (il suo amico Erasmo stava traducendo il Nuovo Testamento, in ciò molto avversato dalle gerarchie tradizionaliste), del rapporto fra religione e umanesimo. Ma parla anche di costume civile, della necessità del dialogo, della difesa della giustizia contro gli interessi di parte, del principio di autorità, dei pregi e dei limiti della satira, del ruolo di classici nella formazione dei giovani e di quello delle donne nella società, dell'imperativo di resistere alla barbarie, delle raccomandazioni (da evitare), del ridicolo "di mettersi in mostra per acquistare nomea", di concubine (se sia meglio che Tizio o Caio, il potente di turno, ne tenga una in casa o dieci fuori), di privatezza e pubblicità, della "malizia" di chi denigra la letteratura e le arti liberali (i denigratori non mancavano neanche allora) e poi dei suoi dilemmi personali, determinati prima dal conflitto fra il dovere pubblico e la personale inclinazione allo studio e al dialogo interiore, e successivamente dalla scelta obbligatoria fra l'attaccamento alla vita e alla famiglia, e la dignità e il rispetto per la propria coscienza: scegliendo la quale finì per opporsi, tacendo invece che sbraitare, a un re che delle coscienze era tiranno, e siglando così la propria condanna a morte.
Sono queste proprio tutte cianfrusaglie del tempo passato, vecchie manie di vecchi signori paludati e illusi, ridicoli perché deboli di fronte al potere, e naturalmente perdenti? Siamo sicuri di non avere bisogno anche oggi di un po' di senso della dignità personale e collettiva, di resistenza al potere, di discrezione o, a voler proprio esagerare, di civiltà e libertà?
La forza di Moro risiede proprio nella sua inattualità, cui non è estraneo il tono di queste lettere, mai intransigente e clamoroso e invece sempre argomentativo, misurato, pieno di vivacità e di evidente affetto nei confronti di ogni interlocutore (un esempio di come si dovrebbero trattare anche i nemici, e che Moro stesso non riuscì poi a seguire quando si lasciò prendere la mano dalla polemica antiprotestante). Molti passi delle lettere ricordano l'equilibrio con cui, nella sua opera più famosa, vengono offerti quei modelli di sviluppo civile che stanno all'origine di alcuni fra i primari movimenti ideali del pensiero moderno, dal pacifismo al comunismo dei beni, dal culto della vita parsimoniosa all'elezione delle maggiori cariche dello stato e alla loro decadenza, all'abolizione della pena di morte, all'indipendenza dell'intellettuale nei confronti del potere (e non fa onore a nessuno, oggi, adoperare quel testo in senso contrario o dubitativo). Si ricordi il cortese rifiuto opposto da Rapahel Hythlodaeus, viaggiatore e narratore di Utopia, alle sollecitazioni perché accetti le proposte di lauti impieghi a corte: era la parte di Moro più matura e più lungimirante che parlava in quelle pagine, una parte che gli eventi della vita avrebbero messo a tacere.
Ha ragione Francesco Rognoni, solerte e documentatissimo autore dell'introduzione al volume, a definire "vere lettere" questi documenti della probità e dell'integrità di un uomo antico eppure moderno, che sa scrivere interminabili disquisizioni sui pericoli dell'eresia e ancora di più dei contrasti intestini in campo cattolico, ma sa anche interloquire con enorme sincerità e tenerezza con i familiari nell'ora del sacrificio. Ed è grazie al traduttore e curatore di questi scorrevoli testi latini, un monsignore ora scomparso e zio di Rognoni, se oggi ne possiamo apprezzare una scelta eccellente, forte di una gamma articolatissima di principi e sentimenti, presentata e annotata con scrupolo ammirevole. Alberto Castelli (1907-1971) rappresenta la "prima" anglistica italiana, quella che anche in periodi di orizzonti chiusi ha contribuito con altre discipline a correggere la ristrettezza della nostra cultura nazionale e a metterla in contatto con le maggiori esperienze intellettuali dell'Europa moderna.
Franco Marenco
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