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Cosa rimane dell'uomo dopo la morte? E cos'era egli prima di nascere? Esiste solo il buio, prima e dopo la cosa contingente che chiamiamo vita, o c'è dell'altro? Ed è recuperabile un qualsiasi rapporto con i defunti, o dobbiamo rassegnarci ad averli perduti per sempre? Questo "libretto" pubblicato nel 1836, e oggi riproposto da Adelphi, tenta di tracciare alcune risposte, e lo fa con il pudore quasi incantato del suo autore, il fisico e filosofo tedesco Gustav Theodor Fechner (1801-1887). Non uno sprovveduto, questo originale personaggio spesso deriso in vita e snobbato dai posteri, se il suo nome è rimasto legato a importanti studi sulla percezione e alla legge Weber-Fechner sulla sensazione, e se per decenni fu titolare della cattedra di fisica all'Università di Lipsia. Autore di molti volumi, non solo scientifici, ma anche letterari e umoristici, fu il fondatore di una particolare scienza, la "psicofisica", che cercava di conciliare la materia di cui siamo fatti con l'identità spirituale che caratterizza la coscienza di ognuno, ed è indistruttibile, immortale. Appassionato di botanica, Fechner era convinto che anche le piante, e tutto ciò che vive, avessero una coscienza, e l'intero cosmo fosse animato e in armonia, esplicandosi in un rapporto di bellezza e accordo con il divino. Una filosofia, la sua, che oggi potrebbe venire recuperata da qualche tendenza di pensiero new-age, e che forse può avere ancora una certa attrattiva sotto un profilo estetico-romantico. L'idea che esista un filo magico che collega ciò che respira a ciò che si è decomposto fisicamente, e che tuttavia solo per il fatto di essere esistito ha lasciato traccia di sé in uno spazio-tempo spirituale, è indubbiamente poetica e consolante: "colui la cui piccola casa, dove per lungo tempo si è aggirato, viene distrutta, se ne va lontano per sempre e comincia una nuova peregrinazione...il campo delle sue migrazioni è solo indicibilmente più ampio, le vie più libere e i punti di vista più alti..."
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