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Il racconto del lento e progressivo fallimento della carriera di scrittore che Dovlatov subì in una Russia sovietica diviene il pretesto per delineare una serie di profili psicologici, con la lucidità e la divertente ironia tipica dell’autore: “La sezione sport era diretta da Verchovskij, persona benevola e di poche parole. Si trovava in una perenne condizione di oblio. Aveva il temperamento di un napoletano morto. Qualsiasi sciocchezza quotidiana suscitava in Verchovskij gravose riflessioni inconcludenti.”… “L’antipatia maggiore me la suscitava la Kochorina, segretaria editoriale. La ricerca dell’errore era diventata il suo unico impulso vitale. Il mondo circostante non era fatto di atomi, ma di imperdonabili errori”… “L’illimitata arrendevolezza e la sete di agio lo avevano trasformato in un funzionario perfetto. Non c’è tragedia peggiore per un uomo che l’assenza di carattere”.
delizioso! come la claustrofobica censura dell'est sovietico può essere raccontata con leggerezza, senza nulla togliere alla drammaticità dell'esperienza! da leggere
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"Uno scrittore non può abbandonare la sua attività. Questo lo porta inevitabilmente a una distorsione della sua personalità". A scrivere questo passo non è un critico letterario, uno di "quelli che si annidano nelle redazioni dei giornali di provincia". Non è neppure un funzionario di partito di un regime totalitario, raccontato da un eretico del secolo scorso. Chi così si esprime è Dovlatov, uno dei pesi massimi della letteratura russa del Novecento, di cui la Sellerio ha pubblicato una mezza dozzina di opere. L'ultima è autobiografica.
Dovlatov morì a New York nel 1990, quando non aveva ancora compiuto cinquant'anni, ma nacque in Russia poco dopo l'inizio della seconda guerra mondiale e in Russia visse fino al 1978. Se fosse nato in Occidente, la sua autobiografia si sarebbe potuta definire un acuto e scanzonato divertissement intellettuale, rigonfio di un umorismo che fa rima con il "sentimento del contrario" pirandelliano, ma anche con la gnomica orientale. Il fatto, però, è che Dovlatov è russo fino al midollo e la sua autobiografia non racconta gli anni arrembanti del sogno americano, ma quelli grigi del regime sovietico, in modo assai diverso dal cliché utilizzato da molti narratori.
Come ricorda Laura Salomon nella postfazione, lo scrittore è "uno dei pochi a resistere alla tentazione manichea, devastante per quasi tutti gli immigrati russi, di sublimare la propria nostalgia nell'esecrazione, o, viceversa, nell'incensamento della patria lontana". Con simili presupposti, è naturale che anche il racconto di Dovlatov sfugga allo stereotipo del narratore solitario e incompreso e si connoti di un significato quasi inedito, di certo più originale e meno vittimistico di tante altre opere definite eretiche da buona parte della critica occidentale. La denuncia del comunismo non passa quindi per il j'accuse della censura nei confronti della sua opera, ma si declina piuttosto nel racconto sarcastico del proprio fallimento letterario nella Russia comunista, dove, più che sopruso e timore, dominano conformismo e stupidità.
È questo il caso, ad esempio, di una delle (rare) discussioni, sempre seguite da continui e imbarazzanti silenzi, che provoca la lettura di un suo libro: "Il segretario dell'organizzazione del Partito L. Kokk si alzò, aspettò che ci fosse completo silenzio: 'Compagni! È proprio dell'essere umano defecare? Si. Ma è forse solo di questo che è fatta la nostra vita? Esiste da noi l'omosessualità? Si, in certa misura esiste ancora. Ma significa forse questo che l'omosessualità sia l'unica strada?'". Dovlatov raffigura le cose più disgustose, più ripugnanti. Tutti i suoi eroi sono delinquenti, drogati, antisemiti.
Dalle parole dello scrittore russo non si fa fatica a immaginare l'apparatchik, magari insaccato in una stretta grisaglia e infervorato in una rigida posizione. Più che piangere, verrebbe da ridere. Ma in tal caso il riso ed è qui che sta il merito del libro sarebbe più umoristico che comico, e il suo intento non sarebbe un manifesto pubblico o un inno garrulo e libertario, ma al massimo un sagace e laconico sussurro. D'altronde, come fa dire Dovlatov a uno dei suoi amici intellettuali, la letteratura non si fa con la storia e i cataclismi, né con le passioni e le locandine. Basta solo "usare le lettere: A, B, C
". Filippo Maria Battaglia
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