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Un linguaggio molto povero formato da solo alcuni vocaboli che a noi risultano incomprensibili ma per chi veniva condannato a vivere nei Lager nazisti, ognuno di essi aveva un valore inestimabile. Un vocabolo formato da un miscuglio di varie lingue che esprimeva un vero e proprio concetto o azione, una matita una gamella o un pidocchio ed altri ancora, potevano rappresentare la disperazione oppure una momentanea gioia per il prigioniero. Vocaboli conosciuti sia dai prigionieri che dai carnefici e per tutti esprimevano il medesimo concetto, ma ovviamente vissuto in una prospettiva ben diversa. Pochi vocaboli che esprimevano la cruda e misera realta' del Lager. Molto interessante.
Recensioni
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Non era il tedesco la lingua dei lager nazisti, per lo meno non il tedesco parlato e scritto che conosciamo. La lingua delle ss era un gergo violento e aggressivo, urlato, utilizzato per interagire con persone che, per lo più, ignoravano il tedesco. Specularmente, e proprio dal tentativo di creare un patrimonio comune di parole comprensibili, nacque la Lagersprache. A questa lingua, parlata da un gruppo isolato di parlanti di provenienza geografica disparata, costretti a vivere in condizioni di estrema eccezionalità, è dedicato il saggio di Chiapponi, germanista di formazione genovese. In cinque capitoli l'autrice compone un affresco della situazione linguistica dei detenuti nei lager e della lingua dei nazisti, mettendo in luce la funzione fondamentale del linguaggio nell'universo concentrazionario, inteso come strumento di interazione ai fini della sopraffazione, ma anche della sopravvivenza. Riprendendo le categorie di Wolf Oschlies (autore di uno dei pochi studi specifici sulla cosiddetta Lagersprache) e collazionando le numerose testimonianze dei sopravvissuti, Chiapponi descrive il gergo dei detenuti, che nelle memorie dei "salvati" diventa l'unico modo possibile per dare espressione al ricordo. Il saggio dedica anche un capitolo alla lingua dei dominatori, anch'essa lingua segreta, ricca di eufemismi, sigle e di altri espedienti volti a celare la disumana realtà dei campi (su questo aspetto poche sono le indicazioni bibliografiche). Risulta così chiaro che il tedesco dell'amministrazione dei lager, la lingua incomprensibile dei dominatori (ma non l'unica, si veda l'uso del polacco nei campi di sterminio dell'Europa orientale), non diversa dalla vulgata del regime hitleriano, viene per imposizione e ripetizione assimilata e utilizzata dagli Häftlinge ai fini della sopravvivenza. Mancava nel panorama italiano una disamina linguistica dell'universo concentrazionario: lo studio si pone, accanto all'ormai classico Lessico della violenza nella Germania nazista di Aldo Enzi (Patron, 1971), come utile raccolta di materiali per chi studia, dal punto di vista storico e linguistico, la lingua del nazismo.
Marcella Costa
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