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Superbo!
Il maestro dei santi pallidi è un’ottima prova narrativa, dallo stile preciso e leggero. Marco Santagata è abile nel gestire i continui rimandi e l’alternanza del racconto tra rievocazione del passato e cronaca del presente, costruendo un intreccio che lascia col fiato sospeso; fino a un finale originale e inatteso, coinvolgente e poetico allo stesso tempo. Un’ottima lettura per chi ama l’arte e cerchi storie che ne raccontino il mondo, piuttosto che la biografia di un singolo artista.
ho letto un libro fuori dal comune. gustato...divorato...in poche ore... grazie Marco
Recensioni
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La frequenza degli studiosi, anzi dei docenti di letteratura, soprattutto di letteratura italiana, che si danno alla produzione narrativa è diventata un fenomeno piuttosto imponente, d'interesse ormai sociologico. Ma nel caso specifico di Marco Santagata, illustre petrarcologo, sottile interprete di Leopardi e di Pascoli, credo di poter dire che ci troviamo davanti a una vocazione narrativa del tutto genuina, non a un semplice surrogato del saggismo critico. Questa vocazione era già ampiamente testimoniata dai due precedenti romanzi dell'autore: Papà non era comunista (Guanda, 1996) e Il copista (Sellerio, 2000). Due libri tra loro molto diversi: l'uno, una rievocazione biografico-familiare ambientata nei primi decenni del secondo dopoguerra; l'altro, il racconto degli ultimi giorni di Petrarca, nella solitudine esistenziale di Arquà.
Cos'ha in comune con essi questo terzo romanzo? Col secondo, senz'altro il genere del racconto storico. Più profondi, però, i legami col primo. Innanzitutto l'ambientazione geografica, l'Appennino emiliano tra Modena e Bologna, evocato in entrambi i casi con la familiarità di chi vi è a lungo vissuto (un paesaggio, quindi, anche della memoria); in secondo luogo, ed è forse il nesso più sottile, l'attenzione critica alla realtà sociale, al rapporto fra i ceti, alla diversità dei loro tenori di vita, delle loro abitudini. Cito ad esempio il brano dove son descritte le giornate del ragazzo protagonista, garzone di un esoso massaro ("Alla Cà del Comandante le sue giornate non erano granché diverse da quelle dei contadini, dei servi e degli operai che abitavano nei poderi della zona"), e dove mi par di ravvisare, mutati i tempi e gli scenari, la stessa acredine osservatoria che caratterizzava il giovane narratore di Papà non era comunista.
La vicenda, anzi le vicende, del nostro libro sono ambientate in un Quattrocento feudale, caratterizzato dalle mene di alcuni signorotti locali (i Montecuccoli, i Gualandi, i Tanari, i Renno), dal loro vario gioco di alleanze e tradimenti ecc.: una piccola cronaca regionale, che di lì a pochi decenni fornirà qualche materiale di riflessione politica al grande segretario fiorentino.
In questo quadro generale si colloca la storia di Cinìn (il cui nome di battesimo, accettato controvoglia perché un po' ridicolo nel contesto emiliano, è Gennaro), il guardiano di maiali che diventa, attraverso movimentate vicende, servitore della bellissima contessa di Renno, suo tacito adoratore, messaggero d'amore tra lei e il tormentato pievano di Maserno (la cui vicenda ricorda, piuttosto che quella manzoniana di Gertrude ed Egidio, com'è stato detto, quella di Eloisa ed Abelardo, magari in una versione un po' più perversa); poi garzone di bottega di Giberto, un umile e gioviale pittore di Porretta, che lo accoglie in casa come un figlio e gl'insegna i rudimenti del mestiere; infine affermato pittore, Gennaro della Porretta detto il "Maestro dei santi pallidi" per il colore tenue delle sue figure, affascinato dall'arte della prospettiva, una conquista pittorica di quei tempi.
Queste le coordinate tematiche del racconto. Ma la sua originalità e il suo discreto fascino stanno nella costruzione, nell'opera di sapiente montaggio dei vari pezzi che fa di questo romanzo un congegno di sicura resa narrativa.
L'intero racconto, tanto per cominciare, si svolge all'insegna del flashback. Il protagonista Cinìn, ferito nel suo orgoglio di pittore dalla contessa di Renno e da lei costretto a distruggere gli affreschi commissionati ed eseguiti in una sorta di raptus febbrile, decide d'impiccarsi, e a cavalcioni d'un ramo di quercia, in procinto di spiccare il gran salto, ripercorre con la mente gli episodi salienti della sua vita. L'intera durata del racconto, dunque, s'inscrive nel presente di una rievocazione di morituro.
Questo presente non è messo però da parte lungo il corso della narrazione, anzi ad esso si fa continuamente riferimento nel passaggio da una rievocazione all'altra, con ritorni periodici, quindi, della coscienza del rievocatore al suo attuale stato di aspirante suicida. Ne nasce una narrazione a tempi alterni, dove il passato del ricordo si avvicenda col presente di colui che sta ricordando.
Ma lo stesso passato del ricordo non si presenta a sua volta come una narrazione lineare. Più che di una progressione rettilinea, si tratta infatti di un continuo andirivieni della memoria che ripercorre gli eventi di una vita non, o non sempre, secondo la loro successione cronologica. Così, per esempio, la morte di Giberto è raccontata prima del viaggio con lui a Firenze, dove Cinìn prende diretta visione delle opere di alcuni grandi pittori, quali Masaccio, Masolino, Paulo Uccello, Andrea del Castagno, ispirate alla nuova tecnica della prospettiva.
Ne risulta così una netta dissociazione tra la fabula del romanzo (in sostanza, la biografia del "maestro dei santi pallidi") e quello che i narratologi chiamano lÆintreccio, ossia la successione degli eventi nell'ordine che conferisce loro il narratore. Tocca al lettore di ricomporre la fabula nella sua linearità, ricavandola dagli andirivieni della memoria del morituro.
Ho parlato di un congegno narrativo di sicura resa. A questa resa, occorre dirlo, contribuisce molto la dilazione sistematica del motivo per cui il protagonista ha deciso di impiccarsi. Esso viene enunciato apertamente solo nelle ultime pagine, quando ormai l'azione è giunta alla sua catastrofe. Questo fa sì che la lettura dell'intero romanzo coincida con la ricerca ansiosa di una spiegazione.
La catastrofe, comunque, sarà tragica solo in parte: ed è l'ultima sorpresa del racconto, fornita proprio all'ultima pagina. Cinìn si butta nel vuoto ma non muore, finisce solo stordito e ammaccato, perché la corda era fradicia. Ad accogliere il suo nuovo ritorno alla vita (altri due ritorni, dopo altrettanto paurosi incidenti, si erano verificati nel corso del racconto, e proprio sotto la medesima quercia: un oggetto che finisce dunque per racchiudere lo stesso destino del protagonista) c'è il faccione sorridente del suo antico compagno Tugnìn, il figlio del Massaro, l'unico interlocutore benevolo della sua grama infanzia di guardiano di maiali. Così, in certo senso, il circolo biografico del "maestro dei santi pallidi" si chiude con un ritorno alla dimensione elementare, creaturale della sua esistenza preartistica. Come se tutta la sua esperienza successiva fosse stata un sogno agitato.
Ma l'attrattiva di questo libro non è dovuta solo alla sua sapienza costruttiva: essa è affidata anche alla sua esecuzione verbale. La presenza di un personaggio centrale di notevole spessore vitale fa sì che l'autore ne condivida, almeno in parte, la vitalità locutoria. Nulla di naturalisticamente mimetico, beninteso; le battute, quando ci sono, sono ridotte al minimo, specialmente quelle in dialetto (il dialetto modenese, o giù di lì, tanto caro al modenese Santagata: altro tratto comune con Papà non era comunista). Ma in compenso è assai largo l'uso del discorso indiretto libero, attraverso il quale l'autore ci restituisce non solo le vicende del protagonista ma anche, per così dire, la sua corporeità verbale. Questo fa sì che gran parte della narrazione si configuri piuttosto come un monologo che come un resoconto impersonale, e che il linguaggio stesso da puramente referenziale diventi espressivo, icastico, materico.
Questo registro monologico, occorre tuttavia precisare, non si applica solo ai fatti di Cinìn. In realtà Santagata costeggia linguisticamente i vari personaggi, specialmente i più vitali (ad esempio il Massaro, Giberto), pur conservando una sua autonomia di affabulatore. Ma questa affabulazione, appunto, non è neutra, non è anodina. Di qui la vitalità linguistica di questo libro, ch'è appunto l'altra ragione del suo fascino.
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