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Anno edizione: 2020
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L'autore ricostruisce settant'anni di cinema e tv dedicati alla mafia siciliana. La conclusione? Si è creato un mondo parallelo che spesso ha rinunciato a parlare di quella che era l'attualità per rifugiarsi nell'utilizzo di filoni già consolidati nel cinema italiano nei quali far confluire il magma indecifrabile della criminalità mafiosa. Dettagliata ricostruzione, analisi condivisibile. Da leggere e consultare anche dopo la lettura.
un grande libro di storia culturale, che analizza, la costruzione della Sicilia e dell'identità siciliana nelle rappresentazioni cinematografiche della criminalità mafiosa, e la produzione della mafia stessa come oggetto di consumo riproducibile mediaticamente.
Quanto è attendibile la rappresentazione che il cinema italiano ha dato della mafia? Pochissimo. Parola di Emiliano Morreale, critico cinematografico e autore di ottimi saggi sulla nostra cinematografia, il cui ultimo libro contiene nel titolo una delle tesi fondamentali del suo lavoro. La mafia immaginaria, infatti, non è quella che fino a non molto tempo fa veniva definita frutto di fantasia da alcuni notabili dalle mani sporche, bensì quella portata sullo schermo dai registi italiani, forse con la sola lodevole eccezione del “Salvatore Giuliano” di Rosi. E questo perché dal 1949 al 2019, cioè nel periodo attraversato nel libro, il cinema ha costruito nei film e nelle fiction televisive un immaginario fatto di luoghi, personaggi e situazioni che ha finito col sovrapporsi al fenomeno mafioso nella sua autentica dimensione storica. Secondo l’autore, il cinema non rispecchia la mafia, ma piuttosto se stesso, nel senso che le scelte tematiche e stilistiche rispetto a Cosa Nostra servono a spiegare più le mutazioni economiche e culturali del cinema che la delinquenza organizzata. Su questa base Morreale analizza settant’anni di cinema di genere (ma il termine appare problematico all’autore) il cui capostipite, debitore del western, è “In nome della legge” di Germi. E’ una valanga di film, alcuni esemplari a vario titolo (“Il mafioso”, “Il padrino”, “La piovra”), altri ignoti o dimenticati, nei quali Morreale rintraccia gli stereotipi e la nascosta ideologia, di volta in volta collegandoli ai fatti storici e cronachistici. E certo non è casuale, di là dalla necessità cronologica, se il libro si chiude sul “Belluscone” di Maresco, dove il cinema, invece di soggiacere ai cliché, si interroga sui propri meccanismi e sulle proprie (im)possibilità.
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