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Luciano Violante è colto e lucido, ed è un esperto di istituzioni e di giustizia, certo uno dei più avveduti tra i politici in servizio permanente effettivo che si occupano del settore. Per questo il suo Magistrati è, in qualche misura, un evento: chiarificatore e, insieme, preoccupante. È non inganni lo stile sobrio della prima parte un vero e proprio pamphlet, uno scritto da polemista, privo dello spessore di precedenti lavori che pure ne avevano anticipato alcuni passaggi (mi riferisco, in particolare, al saggio I cittadini, la legge e il giudice che apriva, undici anni fa, il volume 14 degli Annali della "Storia d'Italia" di Einaudi, dedicato a Legge, dritto, giustizia). Il messaggio, diretto ed esplicito, è sintetizzato con efficacia sin dalla copertina, che riporta un passo del filosofo cinquecentesco Francis Bacon secondo cui "i giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono", a cui segue il commento che "il rapporto fra politica e giustizia resta difficile ancora oggi. Il trono ambisce a schiacciare i leoni. I leoni manifestano una certa propensione a sedersi sul trono. Solo una solida, laica coscienza istituzionale può garantire il raggiungimento di un equilibrio democratico". È la tesi, da tempo cara a Violante (e a molti editorialisti di eterogenea estrazione), della "pari responsabilità" di politici e magistrati nella produzione della attuale instabilità politica, per il cui superamento occorre un nuovo modello costituzionale che ridisegni i rapporti tra le istituzioni e i reciproci ruoli. Per questo, a ben guardare, il titolo del volume è riduttivo: si parte dai magistrati, ma il bersaglio è la Costituzione del 1948. Violante, del resto, non lo nasconde, definendo "esigenza reale" la costruzione di "un nuovo ordine del Paese, anche di carattere costituzionale", affermando che "oggi il tema dominante dell'agenda politica non è più l'attuazione della Costituzione, bensì la sua riforma" e rimpiangendo il progetto varato nel 1998 dalla Commissione bicamerale "attorno al quale si sarebbe potuto costruire un confronto produttivo" dato che quel testo "aveva il merito di superare la linea della pura resistenza per una ridiscussione del rapporto tra politica e magistratura".
A questa conclusione Violante perviene dopo un vivace affresco delle trasformazioni della magistratura nel nostro paese: puntuale per il periodo che va dall'Unità fino agli sessanta (dove prevalgono la distanza e lo scrupolo dello storico), affrettato e non privo di concessioni a luoghi comuni per gli ultimi decenni (dove prevalgono, al contrario, le passioni e i pregiudizi del politico che questa stagione ha vissuto con intensità e spirito di parte). Accade così di imbattersi in passaggi sorprendenti che viziano, inevitabilmente, il ragionamento e le relative conclusioni. Qualche flash per tutti: l'attribuzione a un "attivismo giudiziario" cui "l'opinione pubblica conservatrice assisteva sbigottita" della crescita delle indagini "sulle morti sul lavoro, considerate non più 'infortuni', ma frutto di una specifica organizzazione del lavoro"; la lapidaria affermazione che, per le nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari, "Magistratura democratica sostiene che debba prevalere in ogni caso l'anzianità nelle funzioni", valida, forse, all'epoca in cui Violante era magistrato, ma superata da oltre vent'anni; la ripetitiva asserzione (forse mediata dall'esperienza delle nomine di prefetti, questori e alti funzionali statali) che "chi non appartenga a una corrente o non sia protetto da un partito difficilmente arriva a ricoprire incarichi rilevanti", per di più suffragata dal richiamo del conflitto insorto sulla nomina di un primo presidente della Corte di Cassazione in cui oggetto del contendere non era una "questione correntizia" ma una "questione morale". Non sorprende, in questo contesto, la conclusione tanto sbrigativa quanto tranchante che non saremmo arrivati alla crisiattuale "se alcuni settori della magistratura non avessero ceduto alla tentazione di trasformarsi in una sorta di protettorato della Repubblica", tesi che ricalca una nota e risalente analisi di Angelo Panebianco sulla magistratura come "burocrazia guardiana" che "tiene sotto il tallone le classi politiche democraticamente elette" (Seconda repubblica e magistratura. Lo squilibrio tra i poteri, "Corriere della Sera", 21 marzo 1994).
Certo, Violante ha ragione quando sostiene che la magistratura non può "sottrarsi a una seria discussione sui confini delle sue attribuzioni e sui suoi rapporti con gli altri poteri dello Stato", anche se i ritardi della magistratura al riguardo non giustificano agli occhi dei cittadini che chiedono giustizia il disinteresse della politica per il funzionamento della macchina giudiziaria, benevolmente giustificato, nel libro, con l'affermazione che "nessun potere è disponibile a riconoscere a un altro i mezzi per funzionare meglio se non sono chiari i presupposti e i confini della sua azione". La discussione sul punto è aperta ed è auspicabile che decolli ma ritorno al punto iniziale occorre individuarne i confini. Quel che non funziona sono comportamenti di singoli o di gruppi (nella politica e nella magistratura), culture e prassi non rispettose della trasparenza (da un lato) e delle garanzie (dall'altro), diffuse insensibilità all'interesse pubblico o è il modello costituzionale di riferimento, fondato sul policentrismo istituzionale e sul bilanciamento tra i poteri? Violante dà la sua risposta. Ne richiamo un punto, relativo alla questione del pubblico ministero: "Le scelte fondamentali di politica criminale (quali reati perseguire e quali lasciare impuniti) che nella maggioranza dei paesi è, direttamente o indirettamente, nelle mani del Governo, in Italia è nelle mani dei magistrati. (
) L'obbligatorietà dell'azione penale è una ipocrisia costituzionale, resa necessaria dall'indipendenza del pubblico ministero". Inutile dire che è il requiem del sistema costituzionale, in cui a differenza che nell'assetto previgente, nel quale l'ordine giudiziario era una semplice articolazione della pubblica amministrazione i magistrati hanno, ciascuno singolarmente considerato, la pienezza del potere giudiziario che discende non da una delega del "sovrano", ma da regole prefissate dalla legge.
La risposta di Violante è chiara e di ciò va dato atto al libro. Resta il dubbio sull'atteggiamento al riguardo dell'opposizione (la cui componente quantitativamente più rilevante "non ha ancora affrontato per usare le parole dello stesso Violante il nodo del rapporto tra politica e giustizia"). Nella speranza che essa non cada nel tranello dell'attuale pensiero unico secondo cui la crisi in atto è crisi della Costituzione e non invece, come sarebbe tempo di comprendere, delle forze politico-culturali e dei partiti che l'hanno voluta e sostenuta.
Livio Pepino
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