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Un libro che descrive bene le rivendicazioni operaie degli anni 70, dall'interno, da chi le ha vissute veramente. Forse questo è l'aspetto migliore del romanzo, che si legge senza noia, aiuta a capire quel periodo storico che adesso non c'è più
Bellissimo libro, un po' complesso ma veramente una bella storia. Una po' cruda ma molto intrigante. Lo consiglio.
Lo lessi subito dopo Canale Mussolini. Romanzo assolutamente mediocre. Lui stesso confessò che impiegò dodici anni per farselo pubblicare e leggendolo si capisce il perché.
Recensioni
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Recensione di Revelli, M., L'Indice 1994, n. 9
"Mammut" è un libro doppio, ambivalente. Come doppia e ambivalente è la realtà operaia oggi. Sembra la storia di una fabbrica, con la sua vita collettiva, la tecnica, la produzione. In realtà è la vicenda umana, politica, esistenziale di un solo individuo. Sembra una narrazione epica, con gli eroi a tutto tondo, le battaglie, il ferro e il sangue. In realtà è il resoconto lirico di un distacco interiore. Sembra un libro pieno di vitale allegria, è in realtà un racconto velato di morte. Inaugura un genere nuovo: gli operai che fanno letteratura. Non più fantasmi, come il Metello Salani di Pratolini, o il Tino Faussone di Primo Levi, o l'Albino Saluggia di Volponi, evocati dalla fantasia dell'autore. E nemmeno uomini in carne e ossa come l'Antonio di Balestrini, costretti però a farsi prestare la penna se non le parole dall'altro, dallo "scrittore". Gente, piuttosto, che vive e che scrive. O forse, si dovrebbe dire, che ha vissuto e che scrive, come se l'accesso alla letteratura potesse avvenire solo dopo che si è consumata la vicenda collettiva. Solo dopo che la "classe" ha cessato di esser tale, e si è infine decostruita nei suoi singoli atomi.
Lo scenario è la Supercavi di Latina, una fabbrica del settore chimico dalla vita breve e intensa, come breve e intensa è la storia industriale italiana. Nata nel 1963 - cinquantamila metri quadri di capannoni tra cui ancora sorgeva "l'erba medica che il contadino aveva seminato l'anno prima" -, giunta rapidamente ai vertici mondiali nel settore, per tecnologia e qualità del prodotto, aveva generato al proprio interno, come in molti altri casi di brusca industrializzazione, un'esperienza di conflitto radicale e potente, fatta di rivolta e solidarietà, di odio per il lavoro organizzato e insieme di compiacimento per la potenza delle macchine (quelle macchine dai nomi evocativi: la Conica, gigantesca e terrifica con le sue bobine agitate a sette metri da terra, la Catenaria, il Siluro, la Concentrica...). Per quasi dieci anni quelli della Supercavi erano stati la punta di diamante nel conflitto sociale dell'area romana, con la loro unità costruita interamente tra le mura dello stabilimento, intorno agli uomini del Consiglio di fabbrica (diciotto compagni che erano "davvero tutti per uno e uno per tutti", prima che quello spirito andasse perso "sotto i bombardamenti del sindacato"). Poi, d'improvviso, dopo lo shock petrolifero degli anni settanta, la crisi, la lotta per la sopravvivenza, infine, dopo una radicale ristrutturazione che ne aveva ridotto gli organici e gli entusiasmi, il passaggio alla Gepi.
La vicenda su cui si dipana il racconto è però quella, personale, di Benassa, rocambolesco capo storico del Consiglio di fabbrica, indiscusso dominatore delle assemblee, recalcitrante condannato al turno di notte a vita, gran lettore di fantascienza, terrore di tutti i capi del personale succedutisi nei vent'anni di vita dello stabilimento. È la sua memoria a scandire il racconto, nei tre giorni di passione che precedono la decisione da cui dipenderà la sua vita futura, e nei due giorni di segregazione nel sepolcro della fabbrica, chiuso a spiegare ai compagni le proprie ragioni. Benassa che rivive le speranze rivoluzionarie del '68, le (poche) miserie e le tante ricchezze della comunità di fabbrica, le allegre e vitali battaglie offensive e le altrettanto allegre, ma già offuscate da un presagio di fine, lotte difensive. E che passa in rassegna i volti dei compagni: Cesare, solido ed estremo, perfetto nei movimenti quando guida il carroponte della Conica come quando porta un corteo a bloccare una superstrada; Massimo, addetto alla granulatrice, strano ex contadino dai tratti settantasettini; e poi Aldo, Pipistrello, Tavoletta, Guido... Una vicenda che s'impenna e s'aggruma intorno a due punti alti.
Il primo è l'occupazione della centrale nucleare di Nettuno: l'approdo epico dell'intera storia sindacale della Supercavi; il "luogo" in cui l'identità collettiva raggiunse il punto di fusione, imprimendosi nella memoria di tutti e legandoli tra loro indissolubilmente. C'erano andati quasi per forza, nell'ultima vertenza, quella per salvare la fabbrica della cancellazione, perché la massa spingeva per qualcosa di forte, di traumatico, capace di sbalzarli fuori dall'anonimato, verso i video televisivi, unica risorsa rimasta da quando la crisi di mercato aveva neutralizzato l'arma dello sciopero. Si parlava di stazione, di blocco ferroviario, di far volare le pietre... C'erano entrati ancora per forza, perché nessuno glielo impediva, perché il cancello era andato giù al primo urto. Ma quelle poche centinaia di metri percorse all'interno del recinto proibito, a ridosso del "mostro", con l'ebbrezza del gesto inaudito ingigantita dal terrore dell'ignoto, valgono forse di più dell'obiettivo raggiunto, della convocazione al Ministero del lavoro che seguì a ruota. Danno la misura di quanto, all'interno di quella generazione operaia, valse l'azione collettiva, in termini di risarcimento dalla frustrazione di un lavoro anonimo, e di autorappresentazione del proprio potere: "I momenti che ho passato oggi, sotto lo striscione della Supercavi, insieme a voi, sotto il reattore - dirà, tornato in fabbrica, Benassa -, sono i momenti più fantastici della mia vita. Passata, presente e futura. Con le sensazioni più sconvolgenti che manco quando ho scopato per la prima volta!... Mi era venuto proprio, sotto il reattore, un delirio di potenza. Mi sentivo come un Prometeo, quello che rubò il fuoco a Giove. Mi sentivo onnipotente come Dio!..."
Il secondo "punto alto" è costituito dalle tre assemblee che Benassa tiene in fabbrica, per spiegare ai compagni la propria decisione di accettare la proposta dell'Azienda: due anni a casa, a stipendio pieno, per scrivere un libro sulla Supercavi. Un modo, elegante per toglierselo dai piedi. Per avviare la "normalizzazione". Che innesca una difficile, tormentata autocoscienza operaia per giustificare un distacco che forse è un tradimento, forse una morte... Il libro documenta 'en pàssant' il momento in cui quella decisione matura, una notte di lavoro, dopo un po' di ore alla granulatrice: "E proprio nell'attimo in cui Massimo si girava, Benassa sentì scavarsi una voragine, dentro di sé... Prima riuscì a vedersi come allo specchio, a strascicare i piedi, sessantacinquenne, ancora a far notte. Poi ripercorse tutto lo strazio e tutto lo squallore di tutte le notti. Passate e future". Per quello squarcio d'orrore senza redenzione, la mattina dopo aveva accettato l'invito del capo del personale per un incontro. E adesso era lì, davanti ai compagni, a spiegare perché vent'anni spesi per loro ora gli fruttavano la possibilità di realizzare (a lui solo) il sogno di ognuno: pagato per stare fuori dalla fabbrica. Ancora una volta leader. In qualche modo visionario: non più a sostenere speranze. Ad "aprire il futuro". Ma ad anticipare, lucidamente, una fine collettiva: "Dieci anni fa - dirà a quella gente che lo saluta piangendo - io non avrei accettato. Adesso sì, perché ho le palle piene". Piene del sindacato, che l'aveva allontanato come un rompicoglioni. Piene del Partito, con i suoi funzionari carrieristi. Piene di una fabbrica "in cui da tempo non eravamo "più uno per tutti e tutti per uno" ... "E poi io credevo a una cosa. Avevo in testa un mito. Un'idea. Purtroppo la storia è andata avanti: la classe operaia, come classe che doveva dirigere tutto, come diceva Marx... oramai è una specie in via d'estinzione. Anche numericamente. Come il lupo... Ci siamo estinti già da un pezzo. Come il bisonte dell'Europa. Come i Mammut". Lo assolverà alla fine, dalle residue e sempre più deboli proteste degli irriducibili, Coco, il saggio: "Io vi vorrei far partecipare a un corso sindacale: mo' i padroni non ci stanno più. Mo' è il sindacato che ti dice che il padrone tuo è il mercato. È il mercato che decide e stabilisce... E Benassa non se la sente. Non si sente più nei panni. Per lui la classe operaia è prioritaria e basta. Non esiste più nient'altro: o comandiamo o niente".
E dato che dell'alternativa è la seconda a prevalere, Benassa è diventato un "intellettuale". Di nuovo tipo: un intellettuale per disperazione. È uscito dalla collettività, ha conosciuto il prezzo della solitudine, lo strappo dal gruppo di appartenenza, come iniziazione alla letteratura. Ed è nato questo libro, duro manifesto sull'insopportabilità del lavoro operaio quando viene meno l'ethos dell'alterità. Quando cade l'orizzonte collettivo e conflittuale. L'hanno rifiutato 33 editori, per un totale di 56 volte, a dimostrazione di quanto acuta sia la sensibilità dell'editoria italiana per la "questione sociale".
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