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Anno edizione: 2016
Anno edizione: 2022
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Toccante storia, reale ( è tratta da una storia vera), attuale, l'immigrazione vista con gli occhi di un ragazzo che fugge. Poetico il libro parla di accoglienza, di rinascita, di fiducia nel futuro e dell'amore universale fra i popoli. Uno sguardo originale e vivissimo, un libro contro chi afferma 'tutti a casa loro', ma quale casa? Casa è dove c'è l'amore.
Una storia vera, commovente raccontata attraverso gli occhi di un adolescente, dei suoi sogni, della sua fede, della sua vogli di vita. Le parole della Barra ci fanno sentire vicino il piccolo Ramon, la sua disperazione, la sua paura, il freddo impietoso della notte e il caldo soffocante del giorno. Un testo che ci fa toccare con mano un argomento tanto discusso ma poco conosciuto sotto un profilo più intimamente umano. Un volume consigliato a tutti, ma soprattutto a chi ancora vede nell'immigrato un qualcosa di diverso piuttosto che "qualcuno" a cui tendere una mano.
La storia di Remon narrata da Francesca Barra è inizialmente terribile; nella prima parte infatti narra del viaggio via mare del ragazzo profugo dall'Egitto alla Sicilia, una testimonianza che rende consapevoli di cosa significa rischiare la vita pur di fuggire da un paese non libero, dove si viene perseguitati anche per la propria religione Remon è un cristiano copto). La vicenda prosegue poi felicemente, con la nuova vita di Remon e il suo incontro con una splendida coppia che decide di prendere il ragazzo in affido. Grazie a storie come questa possiamo ancora credere che il Bene trionfa, qualche volta, e che razzismo, pregiudizi e indifferenza sono meno diffusi di quanto crediamo.
Recensioni
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«Mi chiamo Remon. Sono un cristiano copto. Avevo quattordici anni quando sono arrivato in Italia a bordo di un barcone dall’Egitto. Da solo. Il mio viaggio in mare è iniziato il 6 luglio 2013, è durato centosessanta ore. E preferirei morire pur di non dover più compiere quel viaggio.»
Un popolo, quello dei migranti, che non ha nome né volto, che non ha il diritto di stare al mondo. I loro, sono occhi impauriti e raggrumati dietro una rete metallica, sono volti sporchi e consumati dalla fame e dalla sete, corpi sudici scavati e lordati dalle peggiori condizioni igieniche. No, non hanno il diritto di stare al mondo questi migranti. Sono animali rinchiusi in gabbia. No, peggio, per lo meno gli animali sono degni del più nobile rispetto, sono degni di cibo e acqua, di un posto dove dormire, di un’onorevole sepoltura. Il popolo dei migranti no. Il popolo dei migranti non appartiene né a specie umana, né a specie animale. Parlano le lingue dell’inferno, si ammassano, si infettano, annaspano. Rimandateli sui loro barconi, cosa vogliono da noi, prima gli italiani, vengono qua e vogliono privarci di tutto, del nostro cibo, del nostro lavoro, non diamogli niente, non guardiamoli in faccia, non rischiamo di incrociare i loro occhi perché a guardare bene, là in fondo, potremmo trovare qualcosa che ci assomiglia, accorgerci che sono esseri umani, proprio come noi.
Remon è il migrante numero 92 quando scende da quel barcone delle anime sporche, senza nome né storia. È un bambino egiziano, un giorno partito da solo dalla sua città, perché perseguitato a causa della sua religione: Remon è un cristiano copto e, dopo la Rivoluzione egiziana del 2011, quelli come lui hanno iniziato a essere perseguitati. Remon è il numero 92 di un barcone anonimo. Ancora l’ennesimo barcone che affolla i servizi del telegiornale all’ora di cena.
Remon è fuggito per cercare la libertà, per inseguire il suo sogno: diventare un ingegnere. Ma la libertà non sempre è gratuita. Lo è per noi, nati e cresciuti in un paese di pace, dove basta afferrarla, se la si vuole davvero. Eppure ci sono paesi in cui la libertà ha un prezzo altissimo: il prezzo di abbandonare la propria famiglia, il prezzo di sopravvivere alla nostalgia. Il prezzo di lasciare lingue e costumi conosciuti per approdare in terre nuove e sentirsi diversi. Il prezzo di un viaggio al limite dell’immaginabile. Il prezzo di arrivare dall’altra parte e di non sentirsi ancora liberi, perché diversi ancora una volta, perché brutti e sporchi, perché barbari, perché rozzi e incivili, perché musulmani, perché siriani, perché egiziani, nigeriani, senegalesi, libanesi...
Ma quanto costa, questa libertà? Remon, dall’esperienza dei suoi quattordici anni, ha intuito solo una piccola parte di quello che sarebbe stato il dolore di quel viaggio, ma non si è fatto spaventare. Per un cristiano copto vivere nell'Egitto musulmano oggi significa vivere nelle persecuzioni, nelle violenze quotidiane, nell’emarginazione. La scuola era diventata il suo peggior incubo perché lui, uno dei pochi cristiani in mezzo a una comunità musulmana, veniva denigrato ed escluso da tutti, persino dai professori che muovevano punizioni contro la sua persona fisica. Tenendo lontana la famiglia da questo dolore, Remon ha organizzato la sua partenza, di nascosto: ci sarebbe stato un posto per lui, da qualche parte nel mondo, in cui avrebbe potuto studiare come tutti gli altri, diventare l’ingegnere dei computer:
Restare avrebbe voluto dire vivere in un paese in guerra. Dove hai sempre la sensazione che la libertà sia altrove. E che tu non la conoscerai mai. Avrebbe voluto dire pregare in silenzio, perché qualcuno può tentare, come succedeva troppo spesso, di farti cambiare la tua fede.
La storia della traversata di Remon è la storia di altre migliaia di persone senza volto e senza nome. Un viaggio così mostruosamente inumano, che andrebbe vissuto da chiunque, anche solo per cinque minuti, per comprendere cosa significa essere nella condizione di bestie da macello, prima di aprire la bocca ai giudizi.
Per rimanere in vita durante questo viaggio, Remon si è aggrappato al pensiero della sua famiglia, all’odore delle spezie in cucina, ai momenti di gioco con il fratello, alle stelle che il mare nascondeva, ai delfini, al gusto che quel nome evocava dentro la sua bocca: libertà.
Ma quella di Remon è anche la storia di una nuova vita, ritrovata in Italia, la storia di un’accoglienza e di persone capaci di accettare, di andare oltre il giudizio e la diffidenza, di aprire la propria casa a un estraneo. Perché l’unica certezza che abbiamo, al di là della fede declinata in sfumature differenti in base alla cultura che ci è capitata per nascita, è che siamo tutti figli di una sola specie, quella umana, tutti fratelli di un solo paese, quello bagnato dal medesimo mare. Tutti occhi con la stessa pupilla, la stessa iride, la stessa retina. Gli stessi occhi che vedono come sia facile morire, la sera, in quel lontano telegiornale, davanti alle nostre minestre calde. E basterebbe guardare veramente per capire che dietro tanto accanimento c’è il grido di una disperazione così violenta da aggrapparsi con tutte le forze all’unica vita che abbiamo.
A cura di Wuz.it
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