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Nel Settecento, se Genovesi fu paragonato a Diderot e Filangieri a Montesquieu, Mario Pagano, per la sua intransigenza repubblicana e rivoluzionaria fu accostato, durante le ultime fasi della repubblica napoletana del '99, a Robespierre. Ma questo giudizio, che dà conto del suo mondo di ideali e probabilmente di un tratto reale della sua vita di rivoluzionario, tuttavia nulla ci dice del suo pensiero. A leggere le sue opere, viene di avvicinarlo invece a Rousseau. Non soltanto perché Rousseau dovette essere la sua lettura più tormentata, su cui sempre si interrogò, enigma polemico in giovinezza, pilastro negli ultimi suoi anni; ma perché di quello rousseauiano il suo pensiero ebbe l'andamento. Fu cioè un pensiero volontariamente sistematico, che collegò aspetti anche lontani della riflessione, per raggiungere un'unità articolata secondo nessi e prospettive non sempre facilmente percepibili.
Mario Pagano fu infatti un vero philosophe: filosofo della storia, della politica e del diritto, storico della società umana e del regno di Napoli, scrittore di teatro, ideatore della prima costituzione italiana. Non meraviglia, dunque, che pur tra molti eccellenti studi sui vari aspetti della sua opera e una bellissima biografia di Franco Venturi, mancasse un'analisi approfondita e, appunto, sistematica del suo pensiero.
È quello che ora ha fatto Dario Ippolito, in questo suo gran bel libro, dove il pensiero giuspolitico è seguito nei suoi tre maggiori versanti, filosofico, penalistico e repubblicano. Tali lati della più che ventennale riflessione di Pagano sono analizzati ciascuno juxta propria principia, perché l'autore è attento a seguire e mantenere, oltre che i nessi, anche l'autonomia e le distinzioni tra quei campi. In tal modo si coglie davvero l'esplorazione originalissima che Pagano ha fatto della cultura del suo tempo, provando a trovare un'unità sistematica tra Vico e Beccaria, Montesquieu e l'utilitarismo di Helvétius. Ma come saldare con il ripudio del contrattualismo l'eredità di Locke e la conseguente fondazione individualistica dei diritti umani, che è il cuore di tutta la teoria di Pagano, la base del suo repubblicanesimo, della sua filosofia morale e della sua politica? Come unire questo anticontrattualismo ripreso da Hume e da Vico con il rifiuto dello scetticismo del primo e con la rimeditazione della legge di natura, contestata dal secondo?
Non avere mascherato queste difficoltà è il merito di questo libro, che offre un nuovo sentiero entro la selva selvaggia dei Saggi Politici. Del civile corso delle nazioni o sia de' principi, progressi e decadenza delle società, che apparvero una prima volta nel 1783-85, e di lì a poco, nel 1791-92, quando l'ombra della rivoluzione aveva investito anche i dibattiti napoletani. Con perizia filologica, Ippolito ricostruisce il complesso lavoro di spostamento, cancellazione, riscrittura e innovazione che attraversa l'opera, fino a darcene una convincente ricostruzione. Ippolito individua il perno del sistema di Pagano nel ritorno ad Aristotele, secondo un movimento generale di tutto il suo secolo, in opposizione all'antiaristotelismo secentesco. Pagano unì perciò alla nuova impostazione della politica di Montesquieu molte suggestioni vichiane, in particolare del De Uno, che parevano coerenti all'ispirazione aristotelica. Il rapporto tra formazione dei diritti politici e definizione di quelli naturali mise capo nei Saggi non a una fondazione democratica, ma a una fisionomia elitaria della costituzione, determinata però non dal censo ma dalla virtù morale. In questo modo si evitava di cadere nel governo dispotico o feudale, ovvero in uno fondato sulla plebe: i due rischi che la storia napoletana aveva insegnato a Pagano.
La storia è per Pagano il problema forse più arduo. L'individuo vi porta le proprie strutture interiori, che creano un codice che poi pare di natura; al contrario, è però proprio la storia che può e deve porre limiti alle stesse dinamiche naturali. Non è, questa, né la teoria della storia naturale di Hume, né quella ipotetica di Rousseau; forse, come cautamente suggerisce Ippolito, ricorda quella di Diderot, anche per la capacità di guardare nel presente e al futuro. Pagano mirò infatti a una trasformazione sociale, che garantisse la diffusione della proprietà ai cittadini, i quali, accomunati così da un'eguale mediocrità di beni, potessero tutti concorrere al bene pubblico. Su tale visione della società poggiarono le sue teorie della giustizia penale e della repubblica. Credo che si possa convenire con il risultato all'apparenza paradossale della ricerca: che Pagano sia stato un philosophe e un rivoluzionario, ma non un riformatore. Fu infatti proprio il radicalismo dello storico che lo spinse a diffidare della monarchia borbonica, e ad avere fiducia nella rigenerazione rivoluzionaria.
Girolamo Imbruglia
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