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recensione di Castelnuovo, E., L'Indice 1998, n. 4
Che greci e romani si siano con tanta continuità cimentati nell'esplorazione del volto dell'uomo e nella produzione di ritratti e che tanti esemplari ne siano giunti sino a noi colpisce anche il più distratto visitatore di musei che per lo più traverserà rapidamente le sale a essi dedicate senza soffermarsi troppo, se non per notare i tratti più accentuati dell'uno, l'abbigliamento o l'acconciatura dell'altro, reso perplesso dall'abbondanza stessa dei pezzi, dall'ignoranza delle loro originarie funzioni, dalla discordanza tra il tempo dei personaggi rappresentati e quello in cui fu eseguita l'opera, dal diffuso anonimato e da una certa uniformità di fattura. Se molti ritratti di grandi personaggi dell'antichità possono, per i loro caratteri ripetitivi, provocare un senso di tedio, ciò è dovuto al fatto che sono per la massima parte copie romane eseguite pressoché in serie. Gli originali greci erano stati concepiti per una fruizione collettiva, erano destinati agli spazi e agli edifici pubblici, dall'agorà al teatro, le copie romane vennero eseguite per la villa, la biblioteca, il giardino di qualche patrizio che li disponeva in schiere giungendo persino a ordinarli in ordine alfabetico, per mostrare le proprie curiosità culturali e per acquisire una forma di distinzione. Non solo: questi ritratti non sono che una replica molto parziale degli originali greci che presentavano i loro soggetti sempre a figura intera. Quella del busto è stata infatti un'invenzione romana che concentrò sul volto l'attenzione dello spettatore cui in origine facevano appello tanti elementi: il piglio, la postura, l'abito stesso; era il corpo intero insomma, e non il solo volto che trasmetteva un messaggio allo spettatore.
Sul ritratto nell'antichità, sul suo significato, sulle differenze tra il ritratto nell'antica Grecia e a Roma esiste un'imponente letteratura che conta i più bei nomi dell'archeologia classica da Gisela Richter a Vagn Poulsen, da Ernst Buschor a Karl Schaefold, da Bernard Schweitzer a Hans Peter L'Orange a Guido Kaschnitz-Weinberg. L'autore di questo libro, Paul Zanker, uno studioso di grande ingegno, ora direttore dell'Istituto archeologico germanico di Roma appartiene a un'altra generazione, è nato nel '37 e pone i problemi in modo un po' diverso da quanto facessero i suoi predecessori. Avendo lungamente riflettuto sulle funzioni della figurazione nel mondo antico e sui ruoli sociali delle opere d'arte (di lui è uscito nel 1993 da Einaudi "Augusto e il potere delle immagini") riesce a trattare con estrema chiarezza, in un modo che per essere accessibile al lettore non specialistico non toglie niente al rigore, un tema affascinante e difficile, quello del ritratto di un particolare tipo di uomini e di come esso nasca e si trasformi, quello, come precisa il sottotitolo, dell'immagine dell'intellettuale nell'arte antica.
Intellettuale è un termine che entra nell'uso in Francia giusto un secolo fa, ai tempi di Zola e dell'"affaire" Dreyfus, ma non è improprio usarlo per momenti tanto più remoti; infatti nell'antichità poeti, scrittori, filosofi, pensatori, matematici, oratori, retori vennero considerati, e particolarmente in certe epoche, come appartenenti a un mondo a parte, con caratteri in qualche modo comuni che li accomunavano tra loro e li distinguevano dai loro contemporanei. L'importanza che nell'antichità i ritratti degli intellettuali rivestirono agli occhi dei loro concittadini si misura anche dal numero imponente di quelli che sono giunti sino a noi. Visitando un museo (eccezionali le raccolte della gliptoteca Ny Carlsberg di Copenaghen, dei Musei vaticani o del Museo nazionale di Napoli) ne incontreremo di frequente che recano il nome o le fattezze più o meno caratterizzate di celebri personaggi.
Zanker affronta il suo soggetto ponendosi delle questioni elementari, ma basilari, semplici in apparenza ma decisive e che spesso sono state eluse, quali il come, il dove e il perché; interrogandosi cioè sui committenti dei ritratti, sui pubblici a cui essi si rivolgevano, sulle funzioni che erano loro attribuite, sui luoghi cui erano destinati. Apre al lettore il laboratorio dell'archeologo, lo accompagna nei meandri della critica delle copie, gli svela il complicato lavoro che porta attraverso la costruzione di serie, il confronto e l'analisi di copie e derivazioni che permettono anche di rendere un corpo a un volto o un volto a un corpo, a ricostruire l'aspetto degli originali perduti.
Nella polis democratica del IV secolo a.C. i filosofi e i poeti cui erano state dedicate statue (Licurgo propose nel 330 l'erezione di immagini bronzee dei tre massimi tragici), da Sofocle a Eschilo, Euripide, Socrate, Platone, non erano rappresentati in modo diverso dagli altri cittadini; si trattava certo di raffigurazioni onorarie, ma che onoravano le virtù civiche più che le doti intellettuali. Nel III secolo a.C., nella temperie dei regni ellenistici e del particolare rapporto, simboleggiato dalla celebre visita di Alessandro a Diogene, che si era andato instaurando tra i potenti e gli intellettuali, la situazione subì modifiche profonde, e fu a partire da questo momento che gli intellettuali vennero esaltati in quanto tali, che i loro ritratti presero a sottolinearne le facoltà mentali mettendo in evidenza lo sforzo di pensare che increspa la fronte dei filosofi stoici di rughe e accentuando gli atteggiamenti che rivelano la concentrazione mentale o, nei poeti, la fatica del comporre. Si apre quindi il tempo dei ritratti retrospettivi, dell'esaltazione delle immagini degli antichi eroi del pensiero e della poesia, dal divino Omero a Socrate, a Diogene, che di fronte all'avanzare dell'egemonia di Roma vengono a comporre un ideale "heroon* e divengono in qualche modo i garanti di una identità greca. È questo anche il periodo in cui si assiste a un'intellettualizzazione crescente del ritratto del cittadino, sempre più spesso rappresentato nei monumenti funebri in atteggiamento pensoso, mentre emerge la figura del personaggio immerso nella lettura e il lettore diventa il modello di un'esistenza ritirata.
Nell'antica Roma l'intellettuale non fu certo un modello di figura pubblica; Cicerone e Seneca non si faranno rappresentare come pensatori, ma come fattivi uomini d'azione, e si tiene molto a tenere distinti "otium" e "negotium". L'omaggio alla cultura greca, attraverso la miriade di busti di personaggi del passato, si svolge in ambito privato e il culto della "paideia" nasce così nel segreto delle ville di campagna dei patrizi. Un punto di svolta si avrà nel II secolo dell'era volgare quando l'aspetto ellenizzante dell'imperatore Adriano con barba alla greca (i romani erano rigorosamente sbarbati e come tali venivano rappresentati, mentre la barba era divenuta un attributo del filosofo) si porrà come un modello. Gli Antonini vollero presentarsi con volti da intellettuali quali erano, e una tale stilizzazione caratterizzata dal mantello greco, dalla barba, dalla fronte aggrottata e dalla calvizie (le cui connotazioni spirituali verranno più tardi esaltate nell'"Elogio della calvizie" di Sinesio da Cirene) si generalizzerà in tutto l'impero in età tardo-antonina e severiana. Il trionfo del cristianesimo sarà accompagnato da una crescente spiritualizzazione dei volti, con una vistosa accentuazione degli occhi "enfaticamente aperti" del filosofo carismatico. Da questo intreccio nascerà l'immagine di Cristo come "theios anér", uomo divino.
Seguendo per secoli la vicenda di questa particolare categoria di immagini e percorrendone l'itinerario, Paul Zanker ha scritto un libro affascinante e rivelatore, che facendo la storia del ritratto dell'intellettuale, del suo svilupparsi e dei suoi mutamenti, ha tracciato nello stesso tempo una storia culturale e sociale di lunga durata, attraverso cui si possono accostare e stringere da vicino tendenze, aspirazioni, attese, modelli, valori di società e di epoche.
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