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"Già il titolo ci incuriosisce: "Il mastro, il sigaro, la sedia". Tre elementi che la bravura narrativa di Calabretta trasforma in tre immagini apparentemente svincolate tra loro ma che attraverso le pagine di questo bel romanzo si rivelano essere di fondamentale importanza per la maturazione di Vincenzo, il protagonista. L'autore ce lo spiega lentamente, mentre ci coinvolge nella storia di una famiglia calabrese che vive per la maggior parte nel secolo scorso in un paesino immaginario, Vela, situato tra il mare, di cui si sente il profumo e la montagna, Serra San Bruno, l'Aspromonte. Una famiglia formata da gente comune, che vive del proprio lavoro ma che possiede, profondo, il senso della dignità, del rispetto, del dovere e dell'altruismo. Una famiglia composta per vari motivi al femminile, da donne che uguagliano gli uomini in quanto a forza fisica e che li superano per la forza del carattere. Donne di passione di cui però non sono vittime bensì arbitre consapevoli. Vittime sono, semmai, del destino avverso, sul quale tuttavia non piangono, del quale non si lamentano, perchè disposte comunque a lottare. Ci viene in mente Nedda o altre eroine verghiane nel leggere le pagine dedicate a zia Vittoria, a nonna Antò... Su tutto il filo della storia, della politica, trattata da Calabretta in modo pacato e obiettivo: il fascismo, la guerra, i lati oscuri della liberazione. E i personaggi osservano pensosi, dubbiosi, il cambiamento della società, senza perdere la fede nel vicino di casa o nel mastro, che tanto ha insegnato ai giovani. Intanto le Parche filano e inesorabili dipanano il gomitolo. Vincenzo, alla soglia dei suoi cento anni, cederà il passo da uomo saggio e giusto come da uomo saggio e giusto ha sempre vissuto."
La caratteristica del romanzo "Il Mastro, il sigaro, di Giuseppe Calabretta, e la sedia" sta nell'originalità della cifra che ne definisce il perimetro già nelle pagine dell'incipit narrato: l'apprendimento. Prometeo-Mastro insegna qualcosa all'uomo (tekne) e il segno (sema) di questo precipitato è il sigaro, che pure nel succedersi delle storie umane (soma), si manterrà vivo come necessità. Prometeici e meticolosi (metis) gli interpreti del romanzo, resteranno fedeli a questo apprendimento, proiettato al futuro. A fronte di tanti romanzi, di vario composito ciarpame rassegnato a nostalgiche conservative descrizioni dell'anima ammorbata dal ritorno in terre calabre di questi sfortunati anni (e lettori), questo romanzo si distingue per in-segnare come sia proprio del Maestro tra-durre la tradizione accompagnandola di innovazione, scatenando Prometeo che apprende a dare all'uomo, perché anche quello che si presenti come novello Zeus, non indulga troppo a compiacersi della fragranza che gli dà l'applauso rivolto da folle ignoranti regionali devote al teatrino locale, quanto piuttosto a fornire elementi di pensiero critico che incrinino la putrescenza del libro chiuso in cui chiudersi, aprendolo alla domanda di apertura di senso che interroga, rendendo il texto, pre-testo, in un gioco continuo tra lettura e scrittura, quel gioco che conduce il lettore lontano, senza essere allo sbando trasognato di chi lettore dell'intrattenimento distratto, insapido ed insulso, è portato in giro, come canna al vento dal vortice delle novità etero-doxae od autoedite che non chiedono a chi legge, anzi rifiutano, di esprimere di continuo, ben oltre il pregiudizio, il proprio giudizio su cosa lo fa pensare di nuovo, il libro che sta leggendo.
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