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Un anno fa, o forse quasi due, era d'inverno, che ci si scannava con tonalità feralissime (sopra le righe, fuori della tazza) a partire da una mezza ovvietà pronunziata sull'"Espresso" da qualche scrittore nuovo dei nostri, e per niente dei disprezzabili se è per questo ( i. e. , ricorderete, Covacich); sulla questione se la narrativa italiana fosse oppure no in grado di narrare la realtà : e perché nell'oltreoceano, a narrarla, questa benedetta questa tormentosa realtà, fossero invece così tanto bravini. E giù, riprese e rilanci di quotidiano in quotidiano, funeste ire di superblogs , torrenti di grafomanie in piena, difese d'ufficio e scontri all'arma bianca, giubili strapaesani e prefiche apocalissi, microcorporazioni di neoscrittori vs. ordine sparso di critici neo e non vs. voci anatemiche in regime di splendido semisolamento, forme d'onda pulsate nel deserto, e strombazzature poi da diritta e da manca quando a mancare apparisse un ancorché flebile appello a qualsiasi categoria non egoticamente obnubilata; e ognun bardato insomma coi colori della terziere, a izzare il suo stemma escogitato nell'ultim'ora: come si stesse alla sfilata storica per il palio dei somari, in attesa di fiondarsi poi a sera, nella sagra di contrada, sugli stringozzi dell'eterno nazionalpop, colanti ragù in fondo ai piatti di plastica.
(Un avvio di riflessione più serena e ponderata, a partire dai motivi sollevati da questa polemica stagionale che fu, è nell'inchiesta "Per un rilancio della critica", curata da Luigi Severi per la rivista "Atelier", n. 37, ora in corso).
Ma insomma, anche senza riflettere sulle nostre oggettive magagne, e sui loro effetti vagamente pecorecci; una qualche modesta ipotesi sarà il caso di porsela, circa le ragioni di una così persistente, così viscerale capacità di "presa" immaginaria della realtà, da parte di chi narri un Nordamerica che pure (ancor più di quest'Europa eternamente in diaspora, e finanche, forse, di questa Itaglia de noantri ) appare sprofondato nel suo sfinimento politico e culturale senza fine, nella sua claustrofila ottusità senza uscite di sicurezza.
È che, quel che a me sembra risaltare nella gran parte delle narrative (americane, né esclusivamente letterarie) che sentiamo importanti, è quanto intensamente questo "realismo" (il che vale a dire, ripeto, contatto con la radice immaginaria del reale, con la sua possibilità di essere prodotto in linguaggio) appaia scaturire da un'inarrestabile e naturale necessità di ricerca, o ancor più da una incondizionata libertà d'invenzione, capace di muoversi sincreticamente fra le più diverse posizioni; approdando, nel caso, fino al mainstream .
Un caso peculiare, fra i più radicali (ma posto su un territorio ben al di qua delle convulsioni underground ), ma tanto più emblematico in questo, è il caso della newyorkese d'origini calabro-germaniche Mary Caponegro: scrittrice splendida e ostica e costitutivamente squilibrata (produttivamente irrisolta, persino, vorrei dire), sperimentatrice furiosa quanto maniacale di forme anzi materie liquide, debordanti, secondo un'escursione di soluzioni narrative instabile quanto spiazzante; "ventriloqua e visionaria", è stato osservato (e verbigerante, qualche volta, un po'). Dai suoi quattro libri di racconti (perlopiù introdotti dal segnacolo d'un qualche titolo dilemmatico e s/velante - da The Complexities of Intimacy a Five Doubts ), la Leconte, casa editrice nuova ma con un catalogo già di tutto rispetto, trae ora un florilegioche prende nome da uno dei racconti più stratificati metamorfici e dei più esemplari anche (sempre) nel titolo: Materia prima .
Perché è su materie - dicevo - mentali e corposissime, che si concentra questa narrativa spesso vertiginosa (vedasi qui Bar Star , di sicuro una delle vette nella novellistica americana recente). Nello scrutarla, D. F. Wallace scopriva "un mondo in cui deformazione e rivelazione sono la stessa cosa". È un rilievo che sottolinea appieno la matrice modernista, che sostiene questo modo metamorfico e costellato di atti mancati, inabissamenti, (mai del tutto) casuali incidenti di percorso, schizo-morfologie d'un immaginario tanto traumatico (qui sono io a calcare l'etimologia fantastica nel Traum ), quanto volto a far germinare ciascuno dei semi narrativi, costellanti ogni singolo fotogramma su cui si srotola la sequenza, appunto, del Sogno. - Eppure, cosa indica, davvero, il sovrapporsi (individuato da Wallace)? O meglio, su quale Materia operano queste deformazioni: e quale fondo o origine rivelano?
Perché, è inteso che esiste una deformazione che si nutre del suo infinito accrescimento: dove la carne minerale del mondo più che svelarsi ha sovrapposto su di sé altri veli, per istituire un'algebra del delirio. Il romanzo postmoderno, ipersperimentale quanto terminale, conosce l'interminabilità del suo labirinto: conosce, soprattutto, l'inconsistenza del labirinto, la paranoia di falde sovrapposte e siepi concentriche, erette come pure simulazioni a mimare la via d'una rivelazione impossibile, di una soluzione ipotetica e (fallacemente) posta come fallace (il che, certo, è l'altra faccia, la più inquietante, della succitata presa della realtà ...). In questo, le spirali di Caponegro - estese come dal nucleo d'un reperto casuale e schizomorfo - spalancano, piuttosto; come tracce improvvise nel grano, che rimandano all'abissale verticalità d'una realtà interamente riprocessata nella plastica aliena della mente, oppure aprono su una impossibile memoria antropologica.
Tommaso Ottonieri
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