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“Io vivo nel tremore di scrivere”. Questa sensazione si impone costringendo all’agonia che porta alla rinunzia o “a reagire con una passione breve, violenta, ostinata e tuttavia riflessa – pensosa”. Vi si riverbera la fugacità del momento, la combinazione perfetta di pensiero e sensazione; sebbene, sempre in agguato, lo spettro del fallimento possa in ogni momento balenare, piegando l’ostinazione più caparbia sino a lasciarla senza risorse, annichilita, muta. Per una volta, in questo scritto del 1958 destinato a commentare la vocazione letteraria di Virginia Woolf, Maurice Blanchot sembra dimenticare di non svelare mai, per nessuna ragione, il suo personale rapporto con la scrittura. Questa – appunta echeggiando il Diario della Woolf – non è che un “travestimento” al quale non bisogna prestare troppa fede. Se mai, nei suoi riguardi si deve usare circospezione. Su di essa manca un sapere sicuro – dichiara Blanchot in una lettera a Roger Laporte del luglio 1981, pubblicata con altre nel monografico di Riga che con competenza e passione gli ha dedicato Giuseppe Zuccarino – sicché non resta che approssimarvisi con “attenzione”. Il che, tuttavia, non significa mobilitarsi concettualmente, onde cercare una soluzione. Piuttosto, l’attenzione che occorre riservare alla scrittura sfuma nell’“inattenzione”, nell’attesa. Si deve evitare che l’horror vacui ne colmi anzitempo il vuoto. Accordarsi al suo ritmo – si osserva nella Scrittura del disastro (1980; SE 1990) – impone di viverne gli istanti in modo assoluto, senza badare a quanto vi si prepara. Non è un caso – ricorda Blanchot – che fra l’inattenzione e lo stordimento, l’étourderie, vi sia in francese un’affinità che dischiude lo spazio semantico dell’étonnement, dello stupore e dell’incanto.
Ne è riflesso la scelta che Blanchot compie in favore di un’ontologia “favolosa”, perché “deliberatamente letteraria”. Essa si spiega – nota Jean Starobinski (il cui saggio del 1966 sul primo capitolo del romanzo blanchotiano del ’51 Thomas l’obscur, Zuccarino opportunamente traduce) – con il tentativo di portare a compimento “una nuova universalità” che si manifesta rifiutandosi alla parola che intenda esprimerla. Tanto più difficile si mostra, perciò, il voler dare conto nei modi dell’analisi ermeneutica dell’esigenza che percorre l’opera di Blanchot: il testimoniare la “dispersione” di una parola che “non fa che offrirci una pluralità di posizioni e una discontinuità di funzioni”.
Giustamente Igor Pelgreffi, autore di uno dei contributi più convincenti fra quelli ospitati da Riga, si interroga su che cosa significhi comprendere Blanchot e se ciò sia effettivamente possibile senza sacrificare la topologia della sua scrittura quale “distanza scavata all’interno del linguaggio”, quale “linguaggio che oscilla su se stesso” e che nessun discorso, compreso quello filosofico, può riuscire a dire senza compromettere la sua essenziale neutralità. In tal senso – e l’architettura che tiene insieme i diversi saggi e testimonianze raccolte da Zuccarino lo attesta molto efficacemente – l’opera di Blanchot conserva il carattere ironico di un enigma che non si rivela se non mediante l’interrogativo che pone. Tanto più paradossale sarà perciò nutrire l’ambizione di riservarle lo spazio congenitamente centrifugo di una rivista, a meno di mantenersi con ostinazione sulla soglia della preterizione, così da restare il più a lungo possibile “all’altezza di una difficoltà in cui ogni passo è una trappola, e sa di esserlo” (Jean-Luc Nancy, Compagnia di Blanchot, pure in Riga).
L’intervento che Jacques Derrida consegna alla cinepresa di Hugo Santiago, nel film Maurice Blanchot (1988), segna lo spazio d’una economia di discorso che l’editoriale di Zuccarino fa proprio, e in cui a risaltare è principalmente la cogenza di un limite che non può essere infranto: “Trovarsi nella situazione di dover parlare di Blanchot con la sensazione che si deve parlarne e che, allo stesso tempo, ciò è impossibile, è il modo migliore per comprendere […] il suo ritrarsi”. Secondo quanto si legge nella Conversazione infinita (come suona il titolo della nuova edizione del libro già noto, da noi, come L’intrattenimento infinito, pubblicata da Einaudi nel 2015), nella scrittura non vi è spazio per alcuna coscienza presente; essa anzi la trapassa da parte a parte, impegnandosi in un’esperienza che si adempie unicamente nel non manifesto, nell’ignoto. Tale estromissione dell’empirico – lo pone in luce pure Georges Didi-Huberman nel contributo che, di Riga, chiude la sezione “Saggi e studi” – non implica, però, l’ingresso nel trascendentale. Il “neutro” col quale la scrittura blanchotiana deve identificarsi non è un a priori universale. Esso si obbliga unicamente a “cancellarsi dal discorso che si tiene a partire da esso e su di esso”.
L’evocazione del movimento di “conservazione e toglimento” di matrice hegeliana è evidente. E tuttavia, laddove in Hegel il negativo stesso si nega, in Blanchot la potenza propria del neutro non si estrinseca mai. La neutralizzazione del neutro può infatti essere soltanto allusa attraverso l’infinito gioco letterario. Ma a sua volta quest’ultimo ha inizio unicamente “nel rituale preliminare che traccia alle parole il loro spazio di consacrazione”. Come ha osservato Michel Foucault in dichiarata sintonia col pensiero di Blanchot (La grande straniera, Cronopio 2015), non appena la parola venga scritta sulla pagina che dovrebbe conclamarla quale parola letteraria, essa, proprio da quel momento, cessa di appartenere alla letteratura. “Ogni parola reale è in qualche modo una trasgressione che si compie in rapporto all’essenza pura, bianca, vuota della letteratura”. Il tentativo di situare tale parola racchiusa nella propria perenne ingiunzione resta perciò un esercizio inane. Lo mostrano icasticamente le blind images di João Louro poste alla fine del fascicolo di Riga. In esse il fallimento di ogni spiegazione che possa tentarsi dell’opera di Blanchot, se da un lato assume la perentorietà di un suprematismo della parola trasfigurata e racchiusa nella propria densità, dall’altro sembra sublimare l’immagine stessa di Blanchot in una metamorfosi che, della forma originaria, muta tutto, sicché ciò che persiste non può che essere qualcosa di giammai posseduto e al quale si perviene solo nella perdita e nella disperazione: la scrittura.
Luigi Azzariti-Fumaroli
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