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Anno edizione: 2010
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La storia di Vladek e Anja, della loro famiglia, la Storia dell'olocausto, si alterna ai battibecchi fra Vladek e suo figlio Artie restituendo immediatezza alle pagine. Consigliato a tutti, sempre.
Maus di Art Spiegelman (Einaudi, 2010) è una storia molto particolare sull’Olocausto dove i personaggi sono rappresentati come animali: i topi sono gli ebrei, i polacchi i maiali, i tedeschi i gatti, e i francesi le rane. Maus è la storia di Vladek Spiegelman, un ebreo sopratutto al nazismo, di cui suo figlio – Art – disegnatore riporta tra le pagine la sua testimonianza vissuta in quel lungo periodo. Il fumetto è tratto da una storia vera, e per questo si lascia apprezzare ancora di più. «Quando avete sentito di Auschwitz per la prima volta? Subito dopo...Anche da là – da questo altro mondo – gente tornava e ci raccontava. Ma noi non ci credevamo. E poi notizie così c’erano sempre più spesso e abbiamo creduto. E poi abbiamo visto...anche peggio! Dopo quello che era successo con nonni, è passato un paio di mesi tranquilli. Poi sono usciti dappertutto manifesti e discorsi da Gemeinde… Fratelli Ebrei, mercoledì 12 Agosto tutti, giovani e vecchi, maschi e femmine, sani e malati, dovete registrarvi allo stadio Dienst...Oh no! E adesso? Non è il caso di allarmarsi, si tratta solo di controllare i vostri documenti e timbrarli. E’ per proteggervi, quali cittadini della regione! Non ci vado, è una trappola nazista! Erano tutti preoccupati. E il nostro comitato ebraico aiuta quegli assassini. Dio solo sa cosa ci succederà allo stadio. Beh, hanno appena controllato i documenti ebrei in alcune città qui intorno. Niente di grave. Ma dobbiamo andarci. Senza documenti in regola siamo persi! Andare non era bene. Ma non andare...anche non era bene». Una storia diversa, sul filone delle memorie di sopravvissuti ai campi di concentramento, che consiglio caldamente per avere un punto di vista inedito attraverso un genere – il fumetto – che di rado tocca certe tematiche.
Eccezionale.
Recensioni
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“Insomma, non riesco neppure a dare un senso al rapporto con mio padre… Come posso dare un senso ad Auschwitz?... All’Olocausto?...”
È difficile commentare un’opera controversa come “Maus – Racconto di un sopravvissuto”, un graphic novel che nell’America degli anni Ottanta si permise di parlare dell’Olocausto. Ai tempi alcuni artisti d’avanguardia usavano il fumetto come medium, ma per il pubblico e l’ambiente accademico i comics erano un mezzo di intrattenimento infantile e superficiale. Poteva essere un flop clamoroso, poteva essere tacciato di mancanza di rispetto per le vittime della Shoah, invece divenne un successo: nel 1992 fu il primo graphic novel a vincere il premio Pulitzer.
L’idea base di “Maus” è rivoluzionaria: raccontare l’Olocausto non solo tramite disegni, ma attraverso animali antropomorfi. Gli ebrei sono topi, i polacchi maiali, i tedeschi gatti, gli americani cani. Ma il problema dell’identità culturale è complesso, lo stesso autore se ne rende conto. Da qui la sua indecisione su come disegnare sua moglie, Françoise: una rana francese o una topina ebrea, essendosi lei convertita? E nel campo di concentramento suo padre incontra un ebreo che sostiene di essere un tedesco: forse era davvero un gatto, ma in quel momento i suoi aguzzini lo vedevano solo come un topo.
L’opera è divisa in due volumi, dagli evocativi titoli di “Mio padre sanguina storia” e “E qui sono cominciati i miei guai”. La prima parte tratta della vita del genitore dalla giovinezza fino alla deportazione ad Auschwitz. Nella seconda il padre racconta la sopravvivenza nei campi di concentramento, il ricongiungimento con la moglie, il viaggio in America.
L’opera è d’ispirazione autobiografica: l’autore, Art, è uno dei personaggi principali di “Maus”. La vicenda comincia con una visita di Art al padre, Vladek, che non vede da molto. Dopo qualche pannello che con poche rapide pennellate ci descrive il carattere difficile di Vladek e la convivenza poco armoniosa con Mala, sua seconda moglie, Art comunica al padre la sua decisione di disegnare un libro su di lui.
Vladek non ne è convinto, ma inizia comunque a raccontare com’era la sua vita nella Polonia degli anni Trenta: il lavoro, le ragazze, l’incontro con la madre di Art, Anja. Vladek chiede che Art non scriva su nulla di tutto ciò: non ha niente a che fare con Hitler o con l’Olocausto, è solo la sua vita privata. L’autore ribatte che è proprio questo che sta cercando: materiale umano, reale. Vuole raccontare com’è andata veramente la vita del padre, non scrivere un libro astratto su sopravvissuti dell’Olocausto in generale.
In effetti i personaggi ci appaiono vivissimi, nelle loro speranze e nelle loro debolezze. Vladek sposa la milionaria Anja anche per calcolo, la moglie è mentalmente fragile, la famiglia di lei si mostra cieca alle necessità della guerra. Lo stesso autore si disegna in modo impietoso: a tratti insensibile ed esasperato nei confronti del padre, scosso dal successo della sua stessa opera, in cura da un’analista, geloso in modo irrazionale del fratello morto durante la guerra. La difficile situazione polacca ci viene narrata in modo preciso, come poche altre opere sono state in grado di fare: la tensione secolare fra ebrei e polacchi, la spartizione dopo la conquista nazista, l’organizzazione dei ghetti, gli atroci inganni dei nazisti.
La complessità dell’opera è palese fin dalla sua organizzazione temporale: la narrazione si divide fra il racconto di Vladek al figlio e la loro vita nell’America degli anni Settanta. Così pannelli su camere a gas sono seguiti da disegni di passeggiate in quartieri tranquilli, la lotta disperata per la sopravvivenza si affianca alle lamentele futili dell’ormai anziano sopravvissuto. D’altra parte lo stile minimalista ma intenso, l’attenzione per i dettagli, la resa del parlato di Vladek (fluente in polacco o tentennante in inglese), tutto concorre a testimoniare la cura che l’autore ha riservato alla sua opera.
A più di venticinque anni dalla sua pubblicazione, “Maus” si conferma un capolavoro del post modernismo, un graphic novel di rara maturità artistica, uno sguardo anticonvenzionale e paradossalmente realistico all’Olocausto.
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