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Il notevole romanzo d'esordio di Anne Raeff oscilla tra i generi della saga familiare, della fiction storica e del realismo psicologico, narrando le vicende di tre generazioni di donne che, direttamente o indirettamente, hanno vissuto il dramma dell'Olocausto. Raeff sceglie di non dare voce alla protagonista Clara e di esporre la sua storia attraverso i punti di vista della madre Ruth e della figlia Deborah, in una narrazione alternata che riflette i due livelli temporali di presente e passato. La madre di Clara si trova, ormai ottantenne, ad assistere un malato di Aids al quale racconta la storia della sua vita, l'esperienza del campo di concentramento in cui ha miracolosamente partorito Clara, e gli effetti di tale esperienza sulla condizione attuale della sua famiglia. Allo stesso tempo, la figlia Deborah, un'adolescente tormentata e introversa, esplora il suo rapporto con la madre affetta da depressione, trovando in un attempato uomo irlandese un interlocutore privilegiato che le permette di far luce sui drammi che assillano la sua coscienza ancora troppo giovane e inesperta. La scrittrice non strumentalizza il tema dell'Olocausto con descrizioni accattivanti o patetiche, ma lascia trapelare i suoi effetti sullo sviluppo coscienziale delle tre donne, riuscendo, tramite la narrazione polifonica, a penetrare nei loro caratteri per esplorarne forze e debolezze. "Ci sono molti modi per raccontare una storia", afferma la madre Ruth, descrivendo metanarrativamente lo stesso intento dell'autrice: mantenere un equilibrio tra il dover raccontare un evento simile (per non rischiarne la cancellazione) e il non poterlo raccontare (per non svilirne l'entità attraverso l'eccesso di verbalizzazione e di soggettivismo). Dal punto di vista stilistico, la scrittrice dimostra una ragguardevole abilità descrittiva, alternando alla narrazione cronologica numerose aperture sulle percezioni sensoriali delle donne, e favorendo in questo modo un elevatissimo effetto di visibilità e tangibilità nelle sue ricreazioni spaziali e memoriali. Appropriato è inoltre il passaggio finale dalla narrazione intimista condotta in prima persona, al discorso indiretto in terza persona, il quale ribadisce la giusta distanza rispetto a un tema così delicato e sfuggente. Federico Sabatini
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