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Il libro di Hartog è un interessante saggio letterario e antropologico sul significato del viaggio. Gli scenari sono naturalmente quelli della civiltà antica, come titolo e sottotitolo annunciano; la prospettiva dell'analisi, pressoché in tutti e sei i capitoli del volume, è sempre centrifuga rispetto alla terra greca: non il viaggio genericamente inteso nell'ambito del mondo classico, bensì quello intrapreso da Greci che si spingono al di là della loro terra, e vivono l'esperienza con occhi e sensibilità della cultura ellenica; l'esordio non poteva quindi essere affidato che all'avventura di Ulisse. Le radici profonde dell'ellenocentrismo del viaggiatore greco, che Hartog dimostra essere lontane da stereotipi di municipalismo o campanilismo, si ritrovano in particolare nei resoconti di viaggi d'Egitto, ossia nel rapporto di reciproca ammirazione-invidia che contraddistingue le due culture mediterranee. Dopo le sezioni dedicate alla conoscenza plurietnica dei Greci (Invenzione del Barbaro e inventario del mondo, e poi il capitolo che offre titolo all'intera silloge, Viaggi di Grecia, dall'angustia dell'Arcadia fino alle sconfinate ambizioni di Alessandro Magno) si leggono i viaggi di Roma. Ma lo spostamento non sembra mutare l'angolazione specificamente intellettuale; anche in questi paragrafi i protagonisti della riflessione sono ancora Greci, sia dal punto di vista dello storico, con i viaggi di Polibio, sia da quello del Geografo per antonomasia, greco di terra di frontiera: i Viaggi di Strabone.
Michele Curnis
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