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D’Ivan Turgenev, non bisogna leggere soltanto le opere più famose, come i romanzi “Nido di nobili” e “Padri e figli”, ma anche immergersi nei magnifici racconti contenuti nelle “Memorie di un cacciatore”. Anzitutto è meglio rassicurare certe anime sensibili: in queste pagine si parla ben poco di caccia, mentre si parla molto di natura, perché Turgenev, come ogni vero cacciatore, conosce bene la natura. Così, all’inizio o nel corso di ogni racconto, non mancano mai brani sulle infinite variazioni di cieli, foreste, steppe, o su specifici uccelli o alberi. Poi lo scrittore introduce i ritratti e le peripezie del tale o talaltro personaggio, mugiko o signorotto più o meno decaduto, confrontato a un sistema sociale eretto sull’ingiustizia e sulla disumanità: pochi anni dopo la pubblicazione dei racconti, che fecero scandalo e furono censurati, la servitù della gleba fu abolita, una decisione alla quale contribuì anche la critica implicita nello splendido libro di Turgenev.
Turgenev narra di un mondo perduto fra scenari idillici e inquietanti incontri notturni, alternando il commento sociale tipico del racconto quotidiano ad incursioni nel fantastico e nel soprannaturale, in quello che sembra un viaggio ad occhi aperti lungo le meravigliose descrizioni di cui è capace l'autore, incline all'umorismo sottile, all'allegoria, alla rievocazione del mito e delle leggende, alla vivace esposizione della storia che si apre nella storia come infinite finestre, infiniti universi e gradi di narrazione, con quella punta di mistero, di insolito, di inatteso che imprime spesso una direzione diversa da quella a cui sembra inizialmente tendere ad ogni racconto. Forse ci sono alti e bassi che mi fanno propendere più per le 4 stelle, ma in ogni caso credo sia assolutamente un lavoro da consigliare e da leggere, anche perché il suo autore è un vero maestro dei racconti brevi.
In una terra sconfinata come la Russia zarista altrettante infinite umanità: i servi della gleba, contadini e lavoratori nella loro rassegnata disperazione che si trasforma in pragmatica quotidianità, tra ingenua semplicità di vivere, al limite dell’analfabetismo culturale, e feroce necessità di sopravvivere. I proprietari nella loro tronfia e vuota superiorità di classe che si trasforma in ridicolo cerimoniale tra totale immobilismo etico e civico e completa assenza di visione del futuro. L’unica soluzione per i diseredati sembra essere il distacco dalla realtà, sempre verso il basso però, in un rifugio effimero fatto di minuscole e misere situazioni giornaliere; oppure una latente e non del tutto ben definita fede spirituale, che rimane comunque sempre un distacco dalla realtà, anche se verso l’alto (la Reliquia vivente). Frase del libro: “Sono i beccaccini in volo che fischiano”; “Dove vanno?”; “Là dove dicono che non c’è l’inverno”; “Perché, esiste davvero un posto così’”.
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