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recensione di Cases, C., L'Indice 1997, n. 4
I due autori sono importanti esponenti delle "Annales", di cui la Valensi è condirettrice, mentre di Wachtel Einaudi ha già pubblicato due libri, uno dei quali, "La visione dei vinti", può ricordare nel titolo il "mondo dei vinti" di Nuto Revelli, anche se i vinti di Wachtel sono gli indigeni d'America. Il metodo di questo volume è pure simile a quello frequentemente adottato da Revelli. I due autori, aiutati da qualche allievo, hanno intervistato trentasei ebrei di una certa età (direi che in media avevano una sessantina d'anni quando il libro uscì in francese dieci anni fa) capitati prima o dopo in Francia e generalmente a Parigi, città in cui abitano gli intervistatori, sia da Oriente che da Occidente (anzi, se si scorre l'elenco degli intervistati, con una certa prevalenza degli ebrei sefarditi, provenienti dalle ex colonie francesi, dall'Egitto e da Salonicco, sugli askenaziti). Ciò costituisce una novità, come rileva Cavaglion nell'ottima prefazione, rispetto alla gran massa della letteratura sugli ebrei, centrata sui ghetti orientali e la loro scomparsa nella shoah (espressione ebraica per "catastrofe" che con mia grande soddisfazione vedo che sta sostituendo l'equivoco "olocausto"). In Francia le due provenienze si incrociavano da sempre (ebrei alsaziani da una parte e di origine ispano-provenzale dall'altra), quindi Parigi sembrava la città per questa operazione di incontro, come infatti fu, ma ahimè non in quanto "ville lumière" bensì in quanto c'era il Vél' d'Hiv', donde gli ebrei si smistavano in campi come Drancy per finire tutti ad Auschwitz. Più che la fonte dei lumi la Francia è il paese dell'alienazione, dell'estraneità tra uomo e uomo, al di qua della quale si intravedono i sacri contorni dell'Origine, che sia il villaggio algerino di Ain Beida o quello polacco di Kalisz. La cultura francese appare invece determinante e positiva nel processo di "metamorfosi" (questo il titolo di un capitolo), cioè di allontanamento dalla cultura puramente ebraica e di integrazione in quella europea. Per questo non occorre nemmeno andare dalla Tunisia a Marsiglia e a Parigi, come accade a Elie B., che vi diventa un intellettuale e quando torna a Tunisi fonda una rivistina, ma talora basta leggere "Il giro del mondo in ottanta giorni" per apprendere con estremo stupore che questo mondo è tondo e gira intorno al sole, ciò che era stato tenuto nascosto a un frequentatore della scuola ebraica di uno "shtetl", dove si era rimasti a Giosuè che fermava il sole.
Le storie qui raccontate sono spesso avvincenti, commoventi, comunque interessanti, anche se la voce del narratore (che qui appare nei ricordi di un intervistato come personaggio autonomo che migra di villaggio in villaggio) è necessariamente spezzettata corrispondentemente agli intenti degli autori. Chi voglia sapere come vivevano gli ebrei mediterranei, quali erano i loro usi e costumi, qui trova il suo tornaconto, e sugli ebrei orientali gli italiani sono paradossalmente meglio informati, come avverte il prefatore, che d'altra parte sottolinea la vocazione mediterranea che si esprime in molti ebrei italiani (e cita Carlo Levi ed Emilio Sereni). Eppure il libro si legge con qualche sospetto e talora con vera irritazione. Non crediamo che ciò dipenda dai narratori e nemmeno dai bravi curatori, bensì dal metodo. L'ultima volta che ebbi la fortuna di incontrare il compianto Franco Venturi, mi fece uno sfogo contro la scuola delle "Annales". Aveva letto recentemente uno studio di quella scuola in cui si opponeva ai vecchi metodi della storia militare un nuovo tipo d'indagine che dei soldati esaminava la statura media, il colore dei capelli e simili. Queste gli parevano sciocchezze di fronte a un fenomeno così rilevante come la guerra. Non ho né la competenza né l'autorità per avallare queste critiche. Ma mi sia lecito esprimere l'opinione che in questo libro si appalesino vistosamente i limiti del metodo adottato. Non è che gli autori ignorino lo sterminio degli ebrei orientali, anzi il capitolo secondo "Tra l'Oder e il Dniepr" inizia con venti righe assolutamente esemplari che ne riassumono le vicende e che andrebbero mandate a memoria da tutti i "revisionisti". Il difetto sta nel manico, cioè nel metodo. Poiché la shoah è comunque un evento, e di enormi dimensioni, e il metodo condanna la storia "evenemenziale" contrapponendole appunto la vita quotidiana, "quel passo sempre uguale con cui cammina la natura", come avrebbe detto Jean de La Fontaine.
Sappiamo come da questa impostazione siano usciti molti capolavori storiografici. Ma è la più adatta a rappresentare una realtà fondata su un "evento" come Auschwitz? Diremmo di no. Gli intervistati sono ovviamente vivi o almeno lo erano all'epoca delle interviste. Le quali confrontano un prima e un poi che stanno a cavallo della catastrofe, che così passa in secondo piano. E il prima e il poi sono quelli di ogni indagine sociologica che contrapponga dopo Tönnies la comunità organica, povera ma felice, alla società industriale atomizzata, benestante ma priva d'anima. Si capisce perché gli autori prediligano gli ebrei occidentali, che ricordano Costantina e Algeri affermando che in Europa "solo a Roma si può trovare una luce così", mentre lo "shtetl" è per lo più sporco, buio, sotto un cielo eternamente grigio. Tuttavia anche gli ebrei orientali rimpiangono ad esempio lo "heder", la scuola ebraica di Kalisz, anche se si studiava solo il Talmud e che il sole gira intorno alla terra. L'alternativa è sempre quella tra progresso che si rivela in ultima istanza negativo e alienante e regresso impossibile, oltre che reazionario. Non è un'alternativa molto diversa da quella tra Italia del Nord e del Sud secondo Bossi & Co. La shoah rende questa dialettica insopportabile, in quanto mostra che il progresso tecnologico può condurre al genocidio. E siccome il progresso tecnologico omicida dopo Auschwitz ha compiuto passi da gigante, ecco che si può sospettare con qualche fondata ragione che sarà usato dagli israeliani contro gli arabi, e ritornare alla concezione degli ebrei come causa di tutti i mali, compresi i propri. È quello che fanno i cosiddetti "revisionisti", cui ora per colmo di confusione si sono aggiunti i "revisionisti di sinistra". Non potendo servirsi di argomenti propriamente razzisti, costoro ricorrono a una strana filologia per cui tutti quelli che sono loro invisi hanno nomi ebraici. Già un tale aveva scritto al "manifesto" una lunga lettera, per replicare a un mio trafiletto, in cui si affermava che bastava vedere la mia firma per capire da che pulpito veniva la predica. Ma come faceva a sapere che il mio era un nome ebraico? Fosse stato Levi o Segre, ma di Cases ne saranno rimasti cinque o sei in tutta Italia, di cui uno solo figura nell'elenco del telefono di Mantova, città d'origine della famiglia. Non basta. Nell'ultimo numero della rivista "Marxismo oggi" trovo una lettera di un revisionista "marxista", dal titolo "Risposta a Fornaciari"; in cui l'autore, tale Claudio Moffa, invita il predetto Fornaciari, "lui che è ebreo", a riflettere sulla storia ebraica. Ma come fa un Fornaciari a essere ebreo? Allora dovrebbero essere ebrei tutti i Baker e i Bäcker, i Miller e i Müller, nonché Raffaello Fornaciari, noto purista toscano ottocentesco, autore di una celebre sintassi italiana e di una scelta commentata di novelle del Boccaccio. Mi rassicuro scorrendo l'elenco telefonico di Firenze, dove si trovano una ventina tra Fornaciai e Fornaciari (e naturalmente nessun Cases). Possibile che sian tutti ebrei?
Il pericolo del libro in oggetto è che la sua lettura confermi i revisionisti nel loro convincimento che gli ebrei sarebbero naturalmente immortali, magari sotto il nome Fornaciari, se ogni tanto una benemerita istituzione come Auschwitz non provvedesse a toglierne di mezzo qualche milione, non intenzionalmente, per carità, ma per via delle insufficienti installazioni igieniche. Sicché esso, con tutte le sue virtù, è raccomandabile solo a chi ha già idee chiare in proposito, mentre agli sprovveduti si raccomanda il libro di Raul Hilberg sullo sterminio degli ebrei uscito nella stessa collana einaudiana. Storia "evenemenziale", ma pazienza.
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