"Per molto tempo si è ritenuto che i bimbi venissero al mondo pressoché privi di conoscenze. Tabulae rasae sulle quali l'esperienza e l'apprendimento avrebbero tracciato i loro segni. La ricerca cognitiva degli ultimi anni ha completamente demolito questo punto di vista". È una delle affermazioni più importanti e pregne di conseguenze di questo libro affascinante, che si legge come un racconto e che illustra con una raffinatezza che non scade mai in pedanteria la storia naturale delle menti, descrivendo le modalità che la selezione ha inscritto nel funzionamento del cervello umano e animale. Si scopre così che i piccoli nostri e di altre specie animali nascono con un robusto corredo di dotazioni biologico-cognitive, che rappresentano il risultato di una sorta di apprendimento di specie con cui interagisce poi l'apprendimento dell'individuo. Di questo corredo fanno parte: la fisica intuitiva (compresa l'impenetrabilità dei corpi, la necessità di un agente come causa del moto, e in genere una vigorosa nozione di causalità); alcune raffinate nozioni relative al numero, che consentono operazioni aritmetiche elementari su insiemi poco numerosi; alcune cognizioni spaziali (compresa la metrica e la distinzione destra-sinistra); la capacità di distinguere nettamente oggetti inanimati e animati (questi ultimi mossi da scopi e pervasi da intenzioni ostili o amichevoli), con una netta attrazione verso gli oggetti animati, attrazione che è alla base della vita di relazione e prim'ancora delle strategie di corteggiamento, caccia e fuga. Questi lasciti dell'evoluzione sono inscritti nella nostra costituzione biologica e hanno effetti importanti sull'interazione con il mondo: in primo luogo filtrano le esperienze e le percezioni; in secondo luogo rendono possibile e facilitano l'apprendimento dei fenomeni fisici e sociali a livello individuale; in terzo luogo possono essere d'ostacolo all'interpretazione scientifica del mondo quando essa si discosti dal "senso comune", cioè appunto dalle conoscenze ereditate. L'ultimo punto potrebbe spiegare le difficoltà che gli umani mediamente incontrano nell'accettare il darwinismo e la loro propensione verso il soprannaturale e le superstizioni: si tratta di tenaci residui evolutivi che si oppongono alle "irragionevoli" spiegazioni della scienza, ma sono residui che hanno avuto e in parte hanno ancora un elevato valore di sopravvivenza nel mondo. Ogni specie vive e si riproduce grazie alla mente che le ha fornito la coevoluzione, che in genere non prevede molto spazio per la logica formale o per le raffinate forme che assumono le proposizioni della scienza. La funzione di filtro delle conoscenze ereditate fa sì che, come aveva già notato Warren McCulloch nel suo articolo Che cosa l'occhio della rana dice al cervello della rana, ogni specie percepisca il mondo a modo suo, sicché non ha molto senso dire che la selezione naturale ha plasmato le nostre percezioni per fornirci un'immagine veridica del mondo: "Piuttosto per ingannarci sufficientemente bene per sopravvivere nel mondo". Ovviamente l'immagine della realtà che ciascuna specie possiede è sintonizzata con il mondo, cioè è abbastanza in accordo con esso da evitarle errori grossolani e fatali (altrimenti non saremmo qui a discuterne), e in questo senso tutte le specie sono egualmente evolute. Noi occidentali, forse seguendo l'esempio per certi versi nefasto dei Greci, abbiamo esagerato l'importanza della verità: ciò che conta è la vita (Kafka nel Processo afferma che la logica è ferrea, ma non resiste a un individuo che vuol vivere). Resta il problema di come lo sperimentatore percepisca il mondo del laboratorio e quale valore di verità o conformità al mondo abbiano, di conseguenza, le sue asserzioni. Più in generale resta il problema della conformità della scienza al mondo, visto che anche la scienza è costruita a partire dalla nostra struttura biologica ed è da essa filtrata (è un po' il problema che si poneva Eugene Wigner quando parlava di "irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali"). Un'altra conseguenza dell'eredità cognitiva incarnata nelle strutture biologiche è che "non è sensato ritenere che i cervelli maschili e femminili siano tavolette di cera assolutamente identiche alla nascita, sulle quali società e cultura imprimerebbero le loro preferenze (o i loro pregiudizi)": asserzione forte e scomoda per molti, forse, ma assolutamente plausibile sulla base della somiglianza che tali preferenze manifestano in culture e società distinte, isolate tra loro nel tempo e nello spazio. Per non parlare della differenza maschile-femminile in altre specie animali. Insomma, la differenza organica e ormonale primitiva tra maschio e femmina induce (o è associata a) tutta una cascata di differenze ad altri livelli. Anche la cultura, come la rappresentazione del mondo, è filtrata dai fondamentali biologici. Tra questi fondamentali o primitivi biologico-mentali, Vallortigara elenca la propensione alle spiegazioni causali, basata sulla distinzione primaria tra oggetti inerti e oggetti animati, da cui scaturiscono rispettivamente la fisica intuitiva (largamente condivisa con altre specie) e la psicologia intuitiva; un dualismo primitivo che distingue tra menti e corpi e che è alla base della nostra credenza negli spiriti, negli dei e nella vita dopo la morte; un'ipertrofia del sistema che tratta gli oggetti animati, in particolare gli altri membri della nostra specie, e la "conseguente inclinazione a inferire e ad attribuire desideri e obiettivi laddove questi non esistono. Tale ipertrofia costituirebbe il fondamento cognitivo della nostra propensione al creazionismo", che dunque è profondamente radicato in noi, tanto da sfidare con successo le spiegazioni alternative (l'evoluzione, di cui pure l'attaccamento al creazionismo è figlio). Inoltre, pare che "l'atteggiamento teleologico sia parte di un adattamento innato a trattare i fenomeni del mondo naturale-biologico", per cui a domande del tipo "a che serve un leone?" i bambini rispondono "per andare allo zoo". Insomma "i bambini concepiscono i fenomeni naturali come qualcosa di progettato intenzionalmente, ma da entità che non sono umane", da cui la conclusione per certi versi sorprendente: "Le credenze soprannaturalistiche non debbono essere considerate sinonimo di immaturità mentale, bensì il sottoprodotto naturale di una mente che si è evoluta per pensare in termini di obiettivi e intenzioni". Anche il concetto di Dio si inquadra in questa visione naturalistico-evolutiva, un Dio inteso come agente causale primo, diverso dagli agenti umani, ma diverso anche dal Dio di Spinoza o dal Dio di Einstein, che richiedono un'elaborazione filosofica estremamente raffinata. Non si può certo esaurire la ricchezza di questo libro nelle poche righe di una recensione: bisogna leggerlo, sia per comprendere il cammino che porta dall'umile e utile pulcino a Dio, sia per scoprire il perché di un titolo così curioso. Ma soprattutto per capire molte cose sull'evoluzione che ci ha portato fin qui. Giuseppe O. Longo
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