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L’idea di questo libro è nata nel solaio di una casa sulle rive del lago di Ginevra. Camminando su tavole di legno scricchiolanti o su pavimenti di mattonelle rosse un po’ consunte, davanti a vecchi cassettoni dipinti, Miłosz sentì che qualcosa gli stava parlando dal suo passato. Ma subito si accorse di essere muto. «Il profumo di quel solaio mi era familiare, lo stesso dei nascondigli della mia infanzia, ma il paese dal quale provenivo era distante e, simile a un diavoletto che scatta dalla scatola, io mi muovevo secondo le leggi di un meccanismo impenetrabile per i miei amici ginevrini». Che cosa di preciso poteva significare la parola Lituania per i suoi ospiti? E che cosa sapevano in quella Europa idilliaca di quell’altra Europa, dove Miłosz aveva trascorso decenni di una vita segnata da una successione di orrori dinanzi ai quali «la parola non può non essere perdente»?
Così Miłosz pensò a un libro che lo obbligasse a svelare almeno una parte di quell’«amaro sapere incomunicabile agli occidentali» che si era accumulato in lui; un libro che non fosse soltanto di memorie personali, ma geografiche: il fantasma possente di certe terre che avevano fatto parte del Granducato di Lituania, quando esso era una potenza ben maggiore di quella russa, avrebbe continuato a mostrarsi attraverso le vicende della sua «vita di poeta», e ogni scena si sarebbe prolungata in un cespuglio di digressioni storiche. Con umiltà, usando i propri sentimenti quasi come pretesto per evocare quel fantasma di popoli, boschi e vicoli, Miłosz ha scritto un libro prezioso, il primo forse che dovrebbe prendere in mano chiunque voglia sapere qualcosa di quella immensa Europa «sequestrata», dove è d’uso ormai cancellare la storia, il tempo, i nomi, ma dove la complessità e gli intrecci delle civiltà erano tali che «pressoché ogni uomo che si incontrava era diverso dall’altro, non per una sua peculiare specificità, bensì quale rappresentante di un gruppo, di una classe o di un popolo».
Chi si è trovato a vivere, come Miłosz, in quelle terre durante la prima metà del secolo ha dovuto forzatamente attraversare tutte le trappole e le tensioni dell’epoca, e ogni volta nella loro forma estrema. Un dolente, incompreso sorriso appare in un tale uomo quando l’Occidente vuole sorprenderlo o sconvolgerlo. Perché ogni volta si tratterà, al più, di una ripetizione attenuata di qualcosa che laggiù è già avvenuto.
È parte della grandezza di Miłosz aver conservato intatta la forza del ricordare. Guidati da quella forza, siamo qui spinti a immergerci, con stupore, in una selva di dettagli che la storia ha condannato. Così le strade di Parigi come l’intreccio delle generazioni e dei caratteri finiscono per fissarsi in immagine: «re addormentati in un groviglio di gigli di pietra, simili a disseccati insetti invernali».
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La miglior difesa e insieme il miglior ripudio verso una scelta, i chiodi su cui inizia a fissarsi un destino sono visibili qui, con nuda chiarezza, in questa riflessione: "Scelsi di studiare legge per il timore superstizioso che mi sarei attirato una sconfitta se avessi rivelato prima del tempo chi volevo davvero diventare. Nello stesso tempo intuivo istintivamente che la letteratura non dovrebbe nutrirsi di sé, che va rinforzata con la conoscenza della società. La laurea finì in un cassetto né mai più mi è servita ad alcunché. Ma con ciò dimostrai a me stesso la mia capacità (o forse presunzione) a mandar giù cose sgradevoli, per il fatto appunto che sono sgradevoli. E infatti questo tirocinio mi sarebbe servito più tardi poiché mi inculcò malgrado tutto il rispetto per l'ordine e la precisione mentale". Per quegli eterni paradossi che si infilano nelle vesti dell'uomo, quel pezzo di carta regolò una condizione e forse intagliò ancor meglio la parola poetica, sfinendo nella grandezza dei versi l'idea di verità e giustizia così solide nel mondo del diritto, ma inapplicabili e vane in quell'epoca totalitaria (e non solo). Racconto superlativo, stenti e rincorse dentro una volontà inquieta, oppressa, viaggio "dall'età in cui si formano i riflessi" alla triste consapevolezza di quanto sia sconcertante "la caducità degli uomini" e da quanti "formidabili esemplari di imbecilli blasonati" sia abitata la vita. E' la Storia di come la vera poesia, fra le urla del sociale, si affacci e rintocchi sul dorso di un ragazzo, come si imponga con le sue leggi strambe, fino alle calde soglie di una fede: "La teoria dell'ultimo zloty afferma quanto segue: proprio nell'istante in cui si ha in tasca l'ultimo zloty deve accadere qualcosa. E qual qualcosa accadeva sempre". Milosz grandissimo, l'intima confessione di chi non esita a denunciare i propri tremori, ma giungendo infine a dirci (e sfidando la fame) che "non è bene essere la creta modellata. Meglio essere la mano che modella".
La necessità stringente di piegarsi al Metodo (il materialismo dialettico, una sorta di bipensiero orwelliano) e di essere poi costretti a seguire i dettami del realismo socialista ,unita al bisogno di riempire il vuoto lasciato dalla morte di Dio con le promesse di salvezza e felicità terrena della Nuova Fede (socialista), ne fa degli infelici dilaniati tra la nuda, squallida realtà che vedono e il presente radioso che (secondo il Partito) dovrebbero e vorrebbero (essi stessi) vedere. Il libro che forse meglio di qualunque altro spiega il travaglio delle menti, anche le teoricamente più "illuminate", di fronte alla seduzione intellettuale di uno dei regimi più invasivi e dispotici della storia.
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