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Roth è onesto. Fin dalle premesse, ti avverte che ti farà una supercazzola su sesso, sentimenti, relazioni e nevrosi lunga 374 pagine, e mantiene la promessa. Quindi, o ci stai o non ci stai: io ci sto eccome. Potrei copiare, a grandi linee, lo stesso commento per ogni suo libro che ho letto perché, in fin dei conti, Roth ha scritto e riscritto sempre lo stesso libro; sempre la sua di vita passata al setaccio, a volte mediocremente a volte sublimemente, e io sono felice di aver goduto della sua forza, fino alla fine.
Scritto 40 anni fa, e forse parzialmente datato per la presenza eccessiva di archetipi freudiani, questo durissimo romanzo di Philip Roth può essere considerato un ottimo esempio di risposta negativa alla domanda: «Ma davvero dobbiamo avere sempre compassione per i personaggi dei drammi psicologici?» Peter Tarnopol, malriuscito narratore che vorrebbe incarnare la nuova generazione di scrittori ebrei americani cresciuti durante la Seconda guerra mondiali ma diventati adulti nel periodo del boom economico, è un concentato di sindromi classiche: angoscia da castrazione, delirio narcisistico, Edipo parzialmente irrisolto, vuoto di autorità paterna etc. Ha bisogno di una donna che lo faccia star male, lo castri mentalmente e lo tratti come subalterno, altrimenti la sua ispirazione artistica ne risente. Trova in Maureen la persona adatta, e così dà vita ad un matrimonio iperpunitivo nei confronti di ogni aspetto della sua struttura psichica. Ma la maestria di Roth, che anche in altre opere mostra come l'inferno possa essere solo una pallida imitazione della vita matrimoniale, sta nell'impedire al lettore di solidarizzare con lui, perché appare progressivamente evidente come sia Peter stesso la causa del suo disagio, come il suo disagio sia qualcosa a cui si è affezionato col tempo e da cui non si vuol separare. Non è uno scenario da schiavo/padrone perché è molto ma molto peggio.
Come Marco, nella recensione qui sotto, anche io ho pensato al libro di Svevo mentre leggevo di Tarnopol per gli intrecci temporali, per la nevrosi del personaggio e per l'idea di scrittura come cura. Ho pensato anche a Woody Allen per le situazioni esilaranti e tragicomiche. Libro divertente e tragico, scritto in modo mirabile.
Recensioni
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“Quei chili e chili di pagine accumulati durante il matrimonio avevano come argomento il matrimonio stesso e costituivano la parte maggiore del mio sforzo quotidiano per comprendere come ero caduto in quella trappola e perché non riuscivo a uscirne.”
Einaudi ripubblica un vecchio romanzo di Philip Roth, esattamente del 1974, uscito in Italia nel 1975 per Bompiani. Ritroviamo il caro Nathan Zuckerman (credevate di esservene liberati?) e ritroviamo i tratti distintivi della scrittura confessionale. Dire "ritroviamo il caro Nathan Zuckerman" è però un anacronismo editoriale, causato dallo sfalsamento temporale delle pubblicazioni rothiane, perché in realtà La mia vita di uomo è il primo libro dove appare il personaggio di Zuckerman.
Roth divide il romanzo in due parti. La prima che ha per titolo "Utili finzioni" è costituita da due lunghi racconti, Anni verdi e Corteggiare il disastro, con protagonista Nathan Zuckerman, promettente scrittore ebreo, rimasto invischiato in un matrimonio disastroso, che ha deviato il suo destino dalla strada del successo a cui sembrava destinato. Nella seconda parte, intitolata "La mia vera storia", ecco che compare Peter Tarnopol, la memoria narrante del romanzo, che si scoprirà essere l'autore dei due racconti iniziali. Si può dire che la storia inizi in questo preciso momento ed è lo stesso autore a confermarcelo scegliendo di titolare la parte precedente come finzione. Conferendole però un grado di utilità, l potere di esorcizzare i demoni, e conferendo all'intera opera un carattere metaletterario. Il protagonista è uno scrittore che tratta il tema della scrittura e inserisce per intero anche due sue opere. È una delle prime occasioni in cui Roth fa riflessioni vere e proprie sulla narrativa, e in Zuckerman trova il suo Marcello Mastroianni. L'alter ego invecchierà assieme all'autore fino a Il fantasma esce di scena.
Ne La mia vita di uomo la realtà prima simulata e poi effettiva, è duplice, anzi meglio duplicata, perché in entrambe le sezioni, i due protagonisti vivono un gemello destino. E ciò contribuisce anche ad affermare la modalità autobiografica della scrittura di Philip Roth. Sia Nathan che Peter Tarnopol sono vittimizzati, intrappolati dentro una vita "non loro", succubi di figure femminili contro cui Roth si accanisce, dipingendole come mostri, maghe Circe senza bellezza. Ci sono dei germi di controvita, che verranno quindi ripresi un decennio più tardi: l'idea di condurre un'esistenza non scelta, non voluta, con il parallelo perdurare dei rimpianti e dei sogni frantumati. C'è materiale per i più accaniti detrattori della misoginia dello scrittore americano. Il sesso, gli affezionati lettori di Roth certamente non si stupiranno, è come sempre ovunque, nella deriva compulsiva del personaggio, nella scrittura disarcionata da un piedistallo di pudore o moralità, pagine tragiche, comiche, maschiliste, voyeuristiche, tentate dal senso del baratro.
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