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Per la sua capacità di graffiare, di accogliere l’urlo di una generazione poco compresa e restituircela con ferocia e tenerezza, ironia e compostezza, il romanzo di Moshfegh si afferma nel panorama letterario internazionale come un vero classico del futuro, una lente per osservare quel che succede sotto la pelle del mondo.
«Succedevano un sacco di cose a New York, come sempre, ma nessuna toccava la mia vita. Era questo il bello di dormire, la realtà si distaccava e mi arrivava nella mente in modo causale come un film o un sogno.»
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Che libro inutile. Come premessa andrebbe detto che non si capisce, per quale ragione, le lagne di una protagonista depressa, rancorosa e dipendente da farmaci dovrebbero essere anche solo in minima parte interessanti. Potrebbero esserlo se l'autrice avesse rispetto per chi soffre, e utilizzasse il pretesto per qualcosa di più ampio. Invece non c'è l'ha. L'autrice preferisce la via facile. Preferisce una narrazione "sporca", fatta di descrizioni trash e di disprezzo per gli uomini, come impone il decalogo della letteratura "per donne", diventato ben presto "letteratura ideologica del femminismo." Da un punto di vista critico-tecnico, sembra di leggere una radicalizzazione dello stile della Plath in "La campana di vetro". Il tutto adattato al linguaggio contemporaneo, ma al tempo stesso di un piattume e di una stereotipia incredibili. La credenza secondo cui la letteratura dovrebbe essere copia fedele della realtà, mostrando "la vita", il che ovviamente è lontanissimo dalla verità. Vaglielo a dire, all'intellettuale newyorkese, che su certi motivi ci sguazza.
il libro in generale l ho trovato scorrevole e ben scritto. ci sono dei tratti divertenti in una storia del tutto deprimente. Resta il fatto che l ho trovato estremo e menre i primi capitoli sono piuttosto realisti nella parte finale trascende completamente
Depressione, disincanto, delusione e una specie di cupio dissovi portano la protagonista ad un uso massiccio di psicofarmaci per dormire, in un desiderio di straniamento (e annullamento forse temporaneo) dalla vita. Storia triste, con finale semiamaro, punteggiata da ironia e scritta con l'uso di elenchi ripetuti, specie di farmaci. Comica e devastante la figura della psichiatra. P. S. Di passata, val la pena ricordare che una persona che usasse tutti i farmaci di cui abusa la protagonista non avrebbe passato il semestre.
Recensioni
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Il mio anno di riposo e oblio
La solitudine ha diverse sfaccettature, spesso è uno stato mentale, oppure il desiderio fisico di stare da soli, o ancora la paura di esserlo.
Alcune volte è tutte queste cose insieme ed è quello che accade alla protagonista del geniale romanzo di Ottessa Moshfegh, Il mio anno di riposo e oblio, che stanca e insoddisfatta di qualunque cosa le accada, decide di smettere di vivere, scegliendo il sonno, l'oblio appunto, per 365 giorni, per cancellarsi ed eliminare il suo esistere nel mondo.
Poco importa che lei riesca oppure no nel suo intento, quello che conta sono le motivazioni che la spingono a questa decisione e la potenza di questa storia sta proprio nelle domande che ci costringe a porci.
Cosa scatena in noi questo enorme senso di inadeguatezza che ci spinge all'isolamento dall'altro, pur vivendo in una società iperconnessa?
Recensione di Anna Maria Scarsato
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