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Il mistero del processo; La vita della legge e la sentenza del giudice; La tutela del diritto nel processo; Il formalismo nel processo; Il diritto, questo sconosciuto. I titoli dei saggi qui raccolti, scritti da Satta fra il 1949 e il 1958, basteranno a far immaginare quanto sia scottante la materia, specialmente oggi che la realtà giudiziaria è entrata a forza nella vita di tutti in Italia. Inoltre, in questi saggi Satta sembra aver voluto esporre le conseguenze ultime della sua visione del diritto, spingendosi fino al punto dove la nozione di giudizio nel processo viene a sfiorare quella del Giudizio ultimo, che sarà poi dominante nel grande romanzo che ci ha lasciato. E articolando il suo pensiero, amaro e lucidissimo, sulla base di un duro sottinteso: «che esiste una vera e propria vocazione del nostro tempo a vivere senza il diritto». Il libro si apre in medias res, con il racconto di una scena terribile che si svolge davanti al tribunale rivoluzionario, nel 1792. La folla preme per farsi giustizia da sé. I magistrati intervengono per fermarla. Intimano «di rispettare la legge e l’accusato che è sotto la sua spada». In questa scena è già tutto «il mistero del processo». Mistero perenne, che ha trovato in Satta uno dei suoi interpreti più alti.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
A metà strada tra giurisprudenza e filosofia...
Libro intenso, tra prosa e poesia, molto suggestivo .
La nascosta poesia che dimora nelle pagine della legge, la soffocante e invitante storia del paradosso umano a cui tenere testa con un fragile scettro di norme, il senso del giusto e di un'etica sempre febbricitante sopra le fredde tavole del dover giudicare. Di questo e tanto altro parla questo libretto. L'episodio che lo apre è un fatto di sangue nella Parigi del 1792, l'irruzione dei sanculotti nella sala delle udienze mentre lì si giudica la guardia svizzera del re e il capo della stessa, tale Bachmann. La grande bravura di Satta immediatamente mette a confronto due realtà, la Rivoluzione e il Processo, un'antitesi, perché "il processo è essenzialmente e per definizione un atto antirivoluzionario, è un momento eterno dello spirito, e chi fa la rivoluzione non può volerlo senza in qualche modo negare se stesso". Proprio sulla soglia della sala la folla berciante viene bloccata dal presidente officiante il rito e intimata a fermarsi. Ecco il dilemma: che bisogno c'è di un processo se è in atto la Rivoluzione, dunque, più latamente: che cos'è il processo? Può avere vita propria, essere slegato davvero da un contesto che lo agita e lo anima? Il giudice quanto deve scindere da se stesso l'uomo dal suo stesso ruolo? La riflessione si distende poi su dati molto sensibili di pura tecnica giuridica; momenti specifici in alcune singole procedure e insieme corredi di alta letteratura giuridica, pensiamo solo a due nomi come Chiovenda o Gaetano Mosca. Ma l'abbraccio più significativo è anche e soprattutto quello alle dinamiche sociali che genera un processo, le ricadute nell'opinione. E sempre il giudice come primo e ultimo faro della vicenda. Scrive Satta: "Egli deve vedere con gli occhi di un altro". Stupenda frattura, doloroso ruolo. Ma è questa la grandezza del processo, forma e inquietudine, male e fatti attraversati con strumenti di scienza. E la vita? Entra? E come? Proprio questo è il mistero del processo.
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