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La ricostruzione della prospettiva estetica di Enzo Paci lascia emergere una “filosofia dell’arte” che può essere ricompresa in una teoria della percezione e dell’esperienza estetica. Per Paci l’opera d’arte non è che la realizzazione compiuta e oggettivata della forma estetica, il cui inizio è nell’immagine e nel mito. L’immagine, termine medio “tra l’esistenza e lo spirito”, dà ragione della differenza fra un confuso sentire e la percezione che contiene in sé, come lo schema kantiano, una sua “razionalità”, un’inclinazione verso la forma, quindi verso la conoscenza o l’espressione artistica. Il mito, che Paci lega, con Vico, alla prima immagine corporea, è riaffermato nella sua valenza di imprescindibile forma simbolica, ma anche ripreso alla luce della temporalità relazionistica: si rivela così ancora funzionale, strumento orientativo per l’esistenza umana non solo sul piano conoscitivo, ma anche sul piano etico come apertura e progetto verso il futuro. Se immagine e mito, in quanto vanno al di là del nudo e immediato esistere, si pongono sul piano della trascendenza, la forma è alla base della vita dell’uomo e della natura, anch’essa portatrice di simboli. È uno degli aspetti più originali della teoria di Paci che fonda sull’organicismo la necessità del ritorno alle “cose stesse” nell’orizzonte della Lebenswelt. L’arte, dovendo rappresentare “l’idea nel senso”, può essere resa solo in una determinata forma, la cui riuscita è affidata ad una raffinata padronanza dei mezzi tecnici. Tuttavia non deve essere il campo del puro gioco formale, e lasciarsi irretire dalle possibilità della tecnica, ma conservare la memoria del precategoriale. Negli autori più significativi del Novecento (Proust, Mann, Rilke, Eliot, Valéry) Paci ritrova l’eco dell’intenzionalità husserliana tesa verso un nuovo “umanismo”.
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